CRITICA a cura di Nicole Braida: Da subito la protagonista e voce narrante, Susie Salmon, ci svela il suo triste destino: morire a quattordici anni per mano di un assassino, ma la sua morte è solo l’inizio.
Susie entra in un mondo di mezzo, tra la vita terrena e il suo paradiso. Da qui cercherà di indirizzare il padre e la sorella verso la scoperta del suo assassino. La famiglia continuerà a cercare di vivere con il terribile ricordo della meschina fine della figlia maggiore.
Peter Jackson, conosciuto soprattutto per la regia de "Il Signore degli Anelli" (che gli è valsa l’Oscar nel 2003), riesce a liberare la sua potenza immaginifica nonostante il cambio di genere cinematografico nel raccontare l’attesa della giovane Susie all’interno di questo limbo post morte. Luogo dove è incatenata perché non ancora vendicata, dove si incontrano tutte le paure, le sensazioni e i desideri della ragazza.
Susie, interpretata da Saoirse Ronan (nominata all’Oscar per "Espiazione") incarna bene l’innocenza di una quattordicenne. Piccola aspirante fotografa, alla quale la vita viene spezzata brutalmente da un vicino di casa, ossessionato dai bambini, che ricostruisce case di bambole, curando ogni singolo pezzo con precisione maniacale. Il volto dell’assassino è interpretato da un favoloso Stanley Tucci, che fa venire proprio i brividi.
Il soggetto, che è tratto dal best seller di Alice Sebold Lovely Bones, nella sua versione cinematografica si correda oltre alla regia impeccabile e fantasiosa di Jackson, ad una altrettanto potente colonna sonora di Brian Eno.
Rimangono suspence e lacrime. E inoltre gli amabili resti della povera Susie, quello che di lei rimane nella vita degli altri, come gli scatti che un tempo aveva impresso con la sua macchina fotografica. Nicole Braida
VOTO:
CRITICA a cura di Olga di Comite: Film dal gran battage pubblicitario, dati gli effetti speciali che lo costellano e l’amicizia conclamata tra Spielberg e l’autore ("Il Signore degli Anelli", "King Kong") . E’ uscito inoltre in concomitanza con "Avatar" ed entrambi sono parto della fantasia della Weta Digital, tempio della nuova tecnologia del futuro, voluto dallo stesso Jackson. La storia poi è tratta dal bestseller di Alice Sebold che si cimenta coi problemi della morte violenta, dell’aldilà, della elaborazione del lutto. Insomma un ricco biglietto di presentazione.
A narrare, sia nel libro che nel film, è una ragazzina ormai morta di circa 15 anni, uccisa dalla mano di un grigio serial killer che nasconde tremendi segreti nella sua casa. Chiarisco subito che a proiezione finita non riuscivo a dare una valutazione chiara di quanto avevo visto. Non sono un’amante dell’effetto speciale, ma neanche una talebana che rifiuta in blocco il nuovo o il moderno, eppure sentivo che la stonatura era proprio lì e la parte più debole del film nasceva dall’ambizione di rappresentare un aldilà fatto di natura e di energia che si libera al momento della morte. Inoltre la narrazione, dopo il primo tempo più compatto e convincente, si spezzettava inseguendo vari piani di racconto, tutti un po’ superficiali.
Da subito, invece, ho aderito alla scelta dei protagonisti e soprattutto al viso splendidamente adolescenziale di Saoirse Ronan, che fa subito pensare alla luminosità di M. Streep giovane. Anche la famiglia è ben rappresentata e interpretata. L’adolescente, di nome Susie, continua a seguirla nelle sue reazioni e dinamiche, da una specie di limbo, in cui si trattiene. Questo finché non vedrà i familiari accettare la perdita e cercare di rimettere insieme i cocci della loro esistenza senza autodistruggersi. Solo allora, a sua volta, sarà capace di varcare quella porta simbolica che la trascinerà veramente fuori dal vecchio mondo.
Le prime sequenze del film sono dedicate agli ultimi giorni di vita prima della fine atroce della ragazza e il quadro che lo schermo rimanda è quello di una famiglia, nella Pennsylvania anni ’70, unita e vitale. Susie è la classica fanciulla in fiore con i suoi turbamenti, gli slanci, il sogno di un amore incentrato sul bel compagno di scuola. Ha un rapporto equilibrato ma diverso con i genitori, i fratelli più piccoli e la nonna alcolista, personaggio quest’ultimo scarsamente significativo, nonostante l’interpretazione di Susan Sarandon. Più vera infatti è la semplicità con cui agiscono gli altri membri della famiglia. Altrettanto efficace il taglio dato alla figura del serial killer, uno Stanley Tucci irriconoscibile, bolso e biondastro, in apparenza insignificante. Questo grigiore, il vivere quasi chiuso in casa, il non apparire mettono ancor più in evidenza la violenza maniacale dell’individuo, dando forza al film nella sua parte noir che sviluppa forte tensione nello spettatore.
Cancellerei invece la metà del secondo tempo e quel limbo un po’ onirico già visto, costellato di elementi pop e iperrealisti, fatto ovviamente di luce, buio, paesaggi dilatati a metà tra lo spot pubblicitario e il fantasy. Tale quadro cambia a seconda degli stati d’animo della fanciulla in riferimento ai luoghi simbolici che vi si incontrano: il gazebo dell’appuntamento amoroso, il faro della modellistica del padre, il campo di granturco dove è morta.
Centrata e commovente invece la conclusione quando Susie accetta finalmente di non essere più in nessun modo sulla terra e i genitori ricuciono rapporti e vita quotidiana nonché gli affetti rimasti nel ricordo della tragedia: gli amabili resti cresciuti intorno all’assenza della figlia. Olga di Comite
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