CRITICA a cura di Olga di Comite: Doppio ben tornato a Woody come regista e come cittadino della Grande Mela. Era un po’ di tempo che aveva preferito l’Europa, ma forse una sottile nostalgia lo ha riportato a una New York meno borghese di quella di Manhattan ma pur sempre riconoscibile e importante.
Ormai settantenne il regista affida di nuovo a quest’opera, fin dal titolo, le sue considerazioni sul mondo, sull’amore, sull’ebraismo, cioè su tutto l’insieme dei temi lasciati da parte nelle ultime produzioni tese più a costruire storie piuttosto che fornire una sua visione dell’esistenza.
Lo fa a modo suo con la verve e il ritmo giusto di un tempo, per mezzo di una commedia sapientemente strutturata, rivolgendosi direttamente al pubblico come interlocutore in sala. S’intrecciano nella narrazione cinismo e nuova pacatezza; senza moralismi Woody ci dice che tutto è possibile e tutto va bene nella vita purché funzioni in qualche maniera, non faccia del male ad altri e corrisponda a ciò che vogliamo veramente. E ciò è tanto più vero quanto più il tempo ci sfugge e quanto più lo sguardo sull’esistente si fa amaro se non disperato.
Non siamo comunque nel dramma. Allen recupera intera la sua capacità di coniare battute fulminanti e profonde che tutti vorrebbero ricordare. Sono però tante che non ci si riesce e scorrono con grande naturalezza come un nastro che si dipana senza annoiare, combinandosi con situazioni spesso surreali ma possibili.
Il suo alter ego nel film è cinico e pessimista ma anche disposto in fondo a capire che nessuna teoria può racchiudere per intero quel gomitolone chiamato esistenza che si svolge spesso con moto proprio, senza logica, imprevedibile e da comprendere, in quanto legato anche ai sentimenti e al caso, non solo alla ragione. Ragione simboleggiata dal protagonista che però si scontra e confronta con l’opposto, cioè il “cuore” di cui è metafora il personaggio femminile.
Ma a essere efficaci, pur se tratteggiati con poco, sono anche diversi ritrattini minori, come accade nei film migliori del nostro. Qui si tratta appunto di uno di quelli, dove tutto si tiene: musica, fotografia, sceneggiatura, interpretazione. L’unico neo che riesco a trovare riguarda una certa esagerazione nell’ingenuo buonismo attribuito al personaggio di Melody, un po’ troppo "Cappuccetto Rosso", giacché anche la provincia partorisce situazioni e vite molto complicate e spesso violente.
E veniamo alla sintesi del contenuto. Geniale ed egocentrico, Boris Yellnikof (Larry David, ottimo attore di commedie televisive) è un ex-fisico brillante che dopo un matrimonio fallito e un tentativo di suicidio, si è rifugiato in uno squallido appartamentino di periferia newyorkese. Insegna ai ragazzini, insultandoli, il gioco degli scacchi, odia il mondo, dialoga con implacabile durezza e sarcasmo con tutti e si ritiene superiore al resto dell’umanità. Questo finché non arriva una ragazzetta bionda, Melody (Evan Rachel Wood), fuggita da casa, la quale a poco a poco si installa nella sua vita e si innamora di lui. I due si sposeranno senza che “vada tanto male”, finché l’irruzione sulla scena dei genitori di lei non complicherà le cose, rendendo tutto possibile.
Per questa favola, un po’ alla Frank Capra (citato nel film) si può ben spendere una serata e ritrovare l’amico geniale, musone e spassoso, di sempre. Olga di Comite
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