GIUDIZIO: Non è facile recensire a cuor leggero un film che ci si è trovati ad accudire, curare e diffondere per oltre sette mesi, un progetto abbracciato con entusiasmo divenuto immancabile appuntamento quotidiano, un'idea da portare avanti col cuore e da immaginarsi nella mente: Cloverfield, il monster movie prodotto da J.J. Abrams, vero e proprio caso cinematografico dilagato sul web attraverso l'innovativo marketing virale creato attorno alla pellicola, preponderante rispetto al film stesso, è stato elevato a fenomeno di culto dall'incredibile, appassionato e genuino hype creato sulla cinesfera da fansites e blog di tutto il Mondo.
La rete, mai così vigorosa nel portare alla ribalta una pellicola, ha decretato il successo di Cloverfield ancor prima che il mostro preferito da bloggers e fanboys emergesse tra le onde del web per approdare nei cinema: la celeberrima data d'uscita fissata al 1-18-08 non era ancora giunta, eppure il produttore J.J. Abrams aveva già vinto la sua partita.
Ma Cloverfield è o dovrebbe essere anche, soprattutto, un film da giudicare per ciò che si recepisce vivendone l'esperienza cinematografica.
Matt Reeves dirige un monster movie molto realistico, semplice ed ingenuo all'apparenza, interpretato da attori volutamente sconosciuti che possano essere accolti e seguiti con familiarità e trasporto dal pubblico.
La narrazione avviene attraverso l'occhio curioso ed indiscreto di una videocamera a mano, sfruttando lo stile handycam reso celebre da Blair Witch Project, che riprende l'angoscia ed il terrore di un gruppo di persone che assiste all'improvvisa distruzione di New York da parte di una enorme creatura mostruosa dalle sconosciute origini.
Cloverfield non manca di appassionare godendo di una costante tensione narrativa agevolata dalla breve durata della storia, tuttavia difficilmente sfocia in sequenze particolarmente cariche di apprensione ad elevato tasso di thrilling.
Le brevi apparizioni del terribile mostro, ottimamente ideato e realizzato, non incidono tuttavia come si spera nella costruzione del racconto, non impauriscono e non stuzzicano particolari emozioni deludendo le spasmodiche aspettative createsi in rete a favore di un film davvero per tutti.
Il fulcro del pathos è rappresentato dai risvolti umani delle vicende vissute da Marlena Diamond (Lizzy Caplan) e Hud Platt (T.J. Miller), successivamente anche dalle sorti di Beth McIntyre (Odette Yustman): il forte interesse non è generato tanto dal devastante mostro quanto focalizzato sulle vicissitudini di gente comune che vive e soffre un evento inspiegabile che si trasforma ben presto in un incubo ad occhi aperti.
Seppur lodevole nel coinvolgere attivamente lo spettatore, partecipe di un interessante monster movie dai connotati horror e thriller tuttavia abbastanza deboli, ma comunque impreziosito dall'intero percorso di Marlena Diamond (Lizzy Caplan), probabilmente il personaggio più riuscito della storia, e da pregevoli sequenze come l'attacco dei parassiti a danno dei protagonisti principali in fuga, Cloverfield, considerato esclusivamente nella sua componente filmica e non come operazione commerciale, non fa breccia e perde buona parte del suo vigore, affermandosi certamente come ennesimo successo del geniale J.J. Abrams, ma al contempo come film dal fascino ingannatore.
VOTO: 7-
CRITICA a
cura di Gianni
Merlin: Quando si dice: il successo ti rende libero. E’ questo che devono aver pensato i realizzatori di “Lost”, J.J. Abrams e Matt Reeves, quando si sono visti accettare l’idea di questo “Cloverfield”, esperimento audace e forzato di cinema d’azione catastrofico. Non si spiega altrimenti la totale libertà filmica qui adottata, in sostanza 74 minuti più titoli di coda di camera a mano alle prese con un disastro alieno a Manhattan, quindi sempre una situazione in un divenire frenetico, sbalzi, interruzioni, movimenti bruschi. Anche per lo spettatore più paziente risulta difficile e problematica la visione, però giustamente le qualità dei responsabili di “Cloverfield” non si può limitare solamente all’aspetto tecnico, comunque pregnante.
Questo disaster movie in effetti ha spopolato negli States, nonostante la sua evidente difficoltà di fruizione: di certo non esplicita, ma neanche sotterranea è la riproposta dell’incubo post 11/9, oramai presenza aleggiante su gran parte della produzione degli Studios, quasi come marchio identificatore di un certo tipo di cinema: è come se la riproposizione di un incubo distruttivo rappresentasse una forma di cementificazione delle paure collettive americane, una sorta di tragedia umana riappacificatrice, un punto di riferimento che rappresenta paradossalmente un motivo di identità nazionale.
Certo, oltre all’effetto 11/9, non si può non rammentare la similitudine, almeno come incipit, vedi il ritrovamento casuale della telecamera, a quel “Blair Witch Project”, di cui sembra sia stata copiata la strategia di marketing promozionale: qui però la differenza la fa Abrams, che si diletta a tratteggiare, nella prima mezz’ora del film, la classe media americana post adolescenziale e a delineare con maggior impegno le figure dei protagonisti, in modo tale da dare comunque una parvenza di interesse per l’intreccio narrato.
E’ molto verosimile che una tale eccessiva tecnica di ripresa comporti un’assoluta aderenza degli attori alle linee del regista, ed in questo caso bisogna ammettere come spesso si abbia l’impressione, specialmente nella prima parte, di assistere ad un vero reality, dove la forza delle immagini ci fa confondere la visione filmica con la realtà.
D’altra parte, se la bravura degli attori, tra l’altro poco noti, nell’interpretare e seguire la camera a mano ci permette di parlare di riproduzione “più reale del reale”, “Cloverfield” dal punto di vista cinematografico invece si fa apprezzare per la capacità di creare momenti di vera angoscia e suspense, figlie di gran parte delle opere del filone disaster movie, certamente qui amplificate dall’immediatezza dei riscontri visivi, e in sintesi per l’abilità di amalgama dei nostri Abrahams e Murray nel dare vigore ad un climax di paure e emozioni incessanti, quasi che alla fine si è contenti di terminare un’esperienza visiva totalizzante e fortemente partecipativa che, al di là del convincimento sulla qualità dell’opera, non può lasciare indifferenti. Gianni
Merlin
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