CRITICA a cura di Gianni Merlin: Alle prese con il suo quarto film, uno dei nostri più talentuosi giovani registi decide di affrontare il caso letterario dell’anno passato, quel Gomorra, campione di incassi nelle librerie, campione di denunce e casus belli nel dibattito non tanto fra mafia e antimafia ma fra chi insiste nel vedere e chi mette la testa sotto la sabbia: gran parte dell’esito di quest’opera sta proprio qui, nel tentativo di Garrone di declinare la sua indole visionaria già sperimentata precedentemente ad un contesto narrativo fra i più penosamente realistici che il presente italico propina.
In questo, Gomorra film mantiene tutte le sue promesse stilistiche, confermando a pieno la maturità tecnica e la cifra dell’autore romano, che si piega alla realtà partenopea, immedesimandosi in essa pienamente, lavorando di sottrazioni e riempimenti, mischiando attori teatrali a ragazzi presi attorno al set, utilizzando frequentemente camera a mano come mai prima, facendo esplodere la fotografia sui set desolati. La narrazione è estremamente coinvolgente e curata, si avverte tensione e allo stesso tempo una certa linearità nello svolgimento dei fatti, il che rende tutto molto fluido e allo stesso tempo intenso, come se lo spettatore fosse catturato dentro lo schermo.
Questa connotazione stilistica permea le 5 vicende narrate, intercambiabili, non legate omogeneamente, ma presentate come sfaccettature della realtà della camorra: non si tratta di cinema corale alla Altman, in questo senso, ma di situazioni diverse della medesima desolazione, delle dimostrazioni della rassegnazione e dell’ineluttabilità della vita succube della malavita. Se un senso va dato oltre al valore delle immagini è proprio l’idea di predestinazione, come se non vi fosse scampo allo schifo che tormenta questi luoghi, che manifestano anche esteticamente tutto l’orrore che li permea, si veda come Scampia viene ritratta a mò di circolo infernale a cielo aperto.
Non tutte le storie sono violente, anche se la violenza è presente e feroce, anche se non sempre volutamente mostrata (sembra che alcuni abbiano criticato una certa asciuttezza, forse ancora traumatizzati dalla lettura del libro); è vero invece che ci sono episodi diversi, come quello certamente più riuscito del sarto, dove trasuda l’intima ammirazione di Garrone per la manualità dell’uomo, tema forte di tutte le sue opere, dove la parabola esistenziale ha connotati quasi poetici e ci sono episodi come quello interpretato da Toni Servillo, che favoriscono un’ilarità amara che non è proprio in sintonia con il resto del film, ma che comunque serve di complemento al resto. Ma sono dettagli di fronte alla statura complessiva di un’opera che ha i tratti della classicità e della maturità, impreziosita da sprazzi di alto cinema in alcune scene basi, come la sparatoria dei due monelli in costume da spiaggia e il rito d’iniziazione mafioso.
Paradossalmente se ne potrebbe dedurre, a fronte dello scarso rendimento di molta produzione nostrana recente, che più si scava nel presente, cioè seguire la vecchia lezione per cui bisogna filmare quello che si conosce, più il risultato è buono, il che è e rimarrà ancora a lungo il valore aggiunto, ma ahimè anche il grosso limite del cinema italiano. In sostanza, quanti film di mafia / camorra abbiamo già visto più o meno all’altezza di questo Gomorra? Forse pochi, forse tanti, come se comunque non riconoscessimo la statura di questo genere di opere, in quanto italianamente ad esso assuefatti. E vabbè, vorrà dire che Garrone si meriterà per questo più applausi all’estero che in casa propria. Gianni Merlin
VOTO:
CRITICA a cura di Olga di Comite: Diciamo subito ciò che il film più atteso dell’anno non è: non si tratta di un reportage, non è una trasposizione del libro omonimo, non è un documentario-inchiesta.
Del libro di Saviano non compare ad esempio un elemento fondamentale: l’analisi delle attività economiche e del volume d’affari della camorra, perché l’attenzione dell’autore e degli sceneggiatori tende a una descrizione antropologica fatta d’ambiente, spazi, colori d’accecante verità.
La scelta è quella di creare cinque storie seguendo alcuni personaggi tra i tanti, calati - questo sì - nel contesto, nelle atmosfere del libro, ma il loro significato trascende il racconto sociale per divenire simbolicamente universale.
Ascoltare il cuore e il ventre di Napoli serve a capire come funziona parte della realtà del Sud, dove tutte le nostre contraddizioni esplodono o implodono. Indicativo a riguardo il fatto che al quartiere Le vele di Scampia tutti hanno voluto partecipare alla “festa”, recitando se stessi in una felice mescolanza di attori di mestiere e attori di strada. A quel punto i boss hanno dovuto lasciar fare, mentre gli abitanti del quartiere diventavano a modo loro consulenti della sceneggiatura, disputandosi anche il ruolo di chi doveva ammazzare e chi no; spesso, infatti, chi spara nel film lo ha fatto nella realtà.
Già dalla prime inquadrature il linguaggio stilisticamente forte e realistico accompagna e crea i contenuti: siamo subito trasportati nel cuore di una vera e propria guerra tra bande che ha ogni giorno le sue vittime. Teatro iniziale della mattanza un luogo simbolo per i moderni criminali: un volgarissimo centro estetico dove al calore azzurro della lampada abbronzante si sostituisce il crepitare delle pistole. E poi si passa alle Vele dove un po’ alla maniera di Altman si dipanano le storie dei personaggi centrali, cui fa da sfondo la vita di questo terribile e degradato alveare, dove la fanno da padrone spazi angusti, oscuri, miseri, violenti. Tutto parla da solo e tutto è già da sé una denuncia: le facce, i luoghi, le parole. Qui con naturalezza si accampano le vite di Don Ciro, che paga le famiglie dei carcerati del clan, di Maria che sarà uccisa perché il figlio ragazzino ha tradito, del sarto che produce abiti griffati per un piccolo boss, dei due ragazzotti che vogliono fare i furbi fregando i capi, di Franco lo stakeholder intermediario tra le aziende di smaltimento rifiuti e la camorra.
E non c’è scampo per nessuna esistenza: se rimani a Gomorra fai parte del sistema criminale. Solo chi scappa ha una possibilità di salvezza.
Film a contenuto sociale se ne fanno tanti, ma quest’opera ha una capacità d’emozionare in maniera quasi fisica: le immagini, che la fotografia e la camera a spalla inseguono o dilatano, sembra si possano toccare con mano, tanta è la loro evidenza. Tutto è terribile e tutto è perfetto, inscritto in un discorso di contenuti e di stile che è un sistema compatto, proprio come ‘O’ sistema’ di Scampia.
In questo, Matteo Garrone è davvero particolare. Con un linguaggio personalissimo, senza bellurie ma con un gusto artistico e coloristico di sicuro effetto (non per niente suo aiuto-regista è un artista come Gianluigi Toccafondo), ci ha dato un film italianissimo, tutto parlato in dialetto, eppure internazionale. L’architettura, o meglio quello che rimane, delle Vele è una potente metafora, una specie di mostro marino arenato o un transatlantico corroso che va alla deriva con il suo carico di vita folle, corrotta e pur sempre umana nella sua laidezza impietosa e volgare. A loro agio in questo universo si muovono, oltre agli abitanti, attori professionisti del calibro di Toni Servillo (Franco), Gianfelice Imparato (Don Ciro), Maria Nazionale (Maria). Per la musica i Massive Attack hanno scritto e cantato Herculaneum, il pezzo suggestivo che accompagna i titoli di testa.
Ma quando esci dalla sala quello che ti senti addosso è l’odore della delinquenza che si fa normalità in quell’ambito e la sensazione che non ci siano rimedi per il Sud che possano liberarlo dal cancro dei moderni Cavalieri dell’Apocalisse. Olga di Comite
VOTO: