CRITICA a cura di Olga di Comite: Non è una commedia disperata come gli indimenticabili Tenembaum né un flop artefatto come Le avventure acquatiche di Steve Zissou, ma un’opera che, pur organica al mondo e al linguaggio di Anderson, si colloca a metà strada tra le due citate, denunciando però con la lentezza del ritmo di girare un po’ a vuoto.
Sempre raffinatissimo nei particolari, sottile e stralunato, non ha però l’originalità delle prime opere, attingendo musicalmente un po’ ovunque (musica beat, Rolling Stones, Debussy, la vecchia Champs Elysées cantata da Joe Dassin) e saccheggiando, come è suo costume, tutte le variazioni del colore, dai più acidi e fumettistici ai più seriosi, insaporendo il tutto con trovate alla moda (vedi la valigeria creata appositamente da Wuitton).
Il regista rimette in scena una delle sue famiglie disfunzionali. I legami non sempre sono chiari, ma è certo il fatto che il tris di strampalati fratelli in viaggio per l’India non sono solo alla ricerca di una madre ma soprattutto di se stessi e la ricerca andrà a buon fine se le valigie che rappresentano il passato verranno abbandonate per viaggiare più leggeri e “ritrovati”. Il processo di riavvicinamento a se stessi e al legame che li unisce si dipana in maniera irregolare e stravagante durante il viaggio in questo treno un po’ d’altri tempi, un po’ frequentato da improbabili personaggi (tra cui anche un serpente), i cui finestrini inquadrano scene da quadri viventi, mentre Anderson racconta con la camera fissa, come se ci facesse sfogliare un album di foto.
Due snodi nel racconto (non sempre decodificabile) sono il salvataggio di due fratellini dalle acque da parte dei nostri e la morte di un terzo: cosa che li metterà a contatto con rituali diversi nell’accostarsi alla morte e richiamerà episodi della fine del loro padre.
Il secondo momento significativo è l’incontro con la madre anticonformista, fattasi monaca laica in un monastero ai piedi delle montagne, che ha disertato il funerale del marito, ha mollato i figli e li molla ancora, dopo aver loro insegnato a comunicare affetto con le regole Zen del messaggio senza parole. Sullo sfondo un’India che è fatta di quadretti, di colori e del bianco delle cerimonie funebri.
Come attori, il regista ha riconvocato la sua quasi “famiglia” con un nuovo arrivato nella persona di Adrien Brody, che abbandona l’immagine dolente de Il pianista per regalarci un fratello mezzano svagato e ironico.
A tratteggiare il maggiore c’è la maschera semi bendata di Owen Wilson, ipocondriaco il giusto e aspirante al ruolo di vice-padre, mentre il minore è un baffuto Jason Schwartzman, sempre disponibile all’avventura amorosa sia in una elegante camera d’albergo sia nella toilette di un treno. Questo insieme un po’ burlesco, un po’ serio, un po’ irreale, fatto di tanti piccoli richiami culturali e modaioli rimane il segno di un autore originale, comunque si giudichi questo prodotto su cui i critici si sono divisi in maniera molto netta. Io che non ho ordini di scuderia né sono una critica di mestiere, mi colloco a metà tra l’applauso incondizionato e la stroncatura. Olga di Comite
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