CRITICA a cura di Olga di Comite: Premetto che non è facile cimentarsi con il passato prossimo quando le sabbie sono ancora mobili e tizzoni di passione forti non ancora spenti del tutto, dormono sotto la cenere. In forma di diario, di letteratura, di film e di documentari, molti autori hanno cercato di far rivivere quel periodo che, qualsiasi giudizio si intenda esprimere, è certo un fenomeno complesso e ancora strumentalizzato a diversi fini.
Michele Placido nel pensare al suo film non ha voluto fare la storia di quegli anni (lo dichiara lui stesso) e questo va bene; il problema è che si è fermato a metà del guado, con il risultato di non raccontare né questo né quello. Mi riferisco a quanto avveniva in un crogiolo quasi mondiale (c’erano di mezzo gli Usa, la guerra in Vietnam, Cuba, la Cina ecc.) o alle realtà minimali rappresentate dai singoli, dai loro sentimenti, da quelli delle famiglie e da chi viveva gli effetti del ciclone Sessantotto.
Questo limite basilare è poi aggravato dalla scelta stilistica: uno stile realistico, ridondante, tutto lampi e baleni, tutto ondeggiamenti di camera e chiaroscuri esasperati fino ad arrivare all’inerte citazione delle Deposizioni di Cristo nella nostra pittura manierista, a proposito dei morti di Avola.
Questo genere di linguaggio era adatto a un film come “Romanzo criminale", certo il migliore di Placido, ma s’addice poco a Il Grande sogno che rischia spesso di avere come sfondo solo la famiglia o lo scontro fisico tra polizia e studenti. Meglio se l’autore avesse usato per la ricostruzione del contesto spezzoni autentici d’epoca, foto, opere-documento (come quella di Silvano Agosti) e avesse dato maggiore spessore e rilievo alle vicende dei protagonisti con un’analisi più efficace.
Non mi dilungo sull’interpretazione personale del regista circa i contenuti del movimento, anche se ne registro l’ottica limitativa e confusa. Alla fine uno spettatore ignaro dei fatti (i giovani ad esempio) recepisce che quel grande sogno non solo non ha portato a quasi nulla ma che ha prodotto quasi unicamente sconquassi e dolore. Gli eventi più vicini, non ancora storia con la maiuscola, ognuno li vive secondo esperienza e sensibilità, ma viene il sospetto che in fondo in fondo Placido conservi qualcosa del poliziotto che è stato.
La trama altro non è che il modo diverso in cui i tre protagonisti vivono la situazione. Nicola (Riccardo Scamarcio) è un giovane pugliese che fa il poliziotto per necessità ma vuole diventare un attore; Libero (Luca Argentero) è l’idealista rivoluzionario acceso e convinto sul piano politico ma confusissimo sul piano sentimentale; Laura (Jasmine Trinca, la migliore come interpretazione) è una studentessa che, da cattolica tradizionalista secondo famiglia, diventa una cattocomunista alla ricerca di nuove verità amorose o politiche. Alla fine è lei il personaggio più equilibrato e maturo.
Dato atto al regista della testardaggine e passione con cui ha voluto realizzare il film, ci si domanda però se la sceneggiatura dica davvero qualcosa di convincente sul ’68 o non sia una sintesi riduttiva infine inutile di quell’evento umano, politico e sociale. Olga di Comite
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