CRITICA a cura di Roberto Matteucci: Boonmee è un uomo di mezza età tailandese. Possiede una fattoria nella campagna della Thailandia. E’ un uomo solo: la moglie ed il figlio sono morti. E’ ammalato ai reni ed è obbligato alla dialisi. Uscito dall’ospedale ritorna alla sua casa accompagnato dagli unici parenti rimasti: Jen e Tong. Costretto ad una dialisi domestica, Boonmee ha colto l’arrivo prossimo della sua morte. La sua morte è imminente. A salutare il suo trapasso arrivano gli spiriti del suo passato: la moglie, il figlio.
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti ha un titolo deforme, ma il film è stupendo. Un film di forte spiritualità, di una grande religiosità. Apparentemente è senza azione: camera ferma, immobile, ma in realtà l’azione è tanta. Un movimento dinamico e veloce dello spirito. La morte non è percepita come possiamo viverla noi; è benvenuta, è una pausa da ciò che siamo stati. Non c’è mai disperazione o rimpianto nello zio Boonmee. Anzi, annuncia alla sorella: “Gestisci tu l’azienda e poi dopo morto torno io ad aiutarti”. Boonmee si dissolverà nella natura, nella foresta: abbraccia l’albero; anche lui diventerà parte di quel mondo. Non andrà in Paradiso. Come sostiene lo spirito della moglie: “Il Paradiso è sopravalutato, non c’è niente là”.
Boonmee conosce il motivo della sua malattia. E’ il suo karma. “E’ il mio karma, perché ho ucciso tanti comunisti e gli insetti di questa foresta”. Insetti e comunisti sono posti sullo stesso piano, ma non c’è malizia politica. C’è solo un desiderio di ritornare ad essere il passato. Dopo tanti fermi immagine, improvvisamente, la camera comincia a muoversi. E’ una andatura frastagliata, rapsodica. Boonmee richiamato dalla morte si reca con i suoi spiriti e i parenti a morire dentro una fessura di una roccia. In questo viaggio la camera è portata a mano e la sua andatura è sempre incerta. Questo voler morire in una caverna è come un ritorno al grembo materno, da dove è partito.
Divertente è la sorella "leghista". Boonmee nella sua azienda ha tanti agricoltori immigrati, soprattutto dal Laos. La sorella candidamente afferma: “I laotiani puzzano”. Anche in questo c’è la purezza del film. Nella sua volontà ad essere semplice ed ironico, sia nei confronti della morte e perfino della vita. E’ un film budddhista nella sua interezza e nella sua volontà. C’è il desiderio di voler resistere alla globalizzazione e occidentalizzazione della Thailandia.
Apichatpong Weerasethakul non vuole perdere la purezza della sua tradizione. Non vuole essere sconfitto dal mondo esistente al di fuori della sua foresta: quel modo di vivere potrebbe distruggere il tutto. E’ la sorella affermando la sua dignità ad essere tailandese conferma questo principio unico. Roberto Matteucci
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