CRITICA a cura di Olga di Comite: La sintetica definizione del mio amico più caro all’uscita dalla sala è di quelle fulminanti: “un gran bel film da consigliare al tuo miglior nemico”. In quanto a me: stomaco stretto all’inizio, un po’ meno via via che il racconto procedeva e poi ammirazione e poi dolore. Un’opera da vedere e da soffrire. Di quelle a detta dello stesso autore, il regista-pittore Julian Schnabel che allontanano lo spettatore. Di quelle, penso io, che alla fine ti arricchiscono e ti toccano nel profondo, laddove latitano paura della morte, amore della vita, affetti difficili, funzione catartica dell’arte, ieri come oggi.
Oltre a ciò Schnabel, regista specializzato nel narrare vite ed esperienze di persone diverse e geniali (Basquiat), coinvolge non solo con i contenuti ma con un linguaggio cinematografico che ha al fondo una vasta conoscenza delle immagini dell’arte iperrealistica e pop, nonché una rara sensibilità coloristica. Di forte impatto è la prima sequenza, in cui la macchina da presa si identifica con lo sguardo del protagonista che si sta riavendo dal coma. Inoltre l’uso del flash-back - il racconto si chiude a circolo sull’inizio -, pur essendo la tecnica abusata, non risulta banale, perché possiede un ritmo alternante tra lunghe sequenze, distese e monotone, e momenti dinamici di ricordi; per mezzo loro il protagonista ricostruisce in una diacronia “imperfetta” la propria vita.
L’uomo si chiama Jean Dominique Bauby e la sua è una storia vera, già oggetto di un libro di grande successo. Al centro dei fatti, un uomo baciato dal successo fino a un certo punto della vita: direttore di una delle riviste di moda più prestigiose, ricco, affascinante, pieno di donne bellissime, è al culmine della sua fortuna quando viene colpito, a 42 anni, da un ictus devastante. Caduto in coma scopre al risveglio di essere totalmente paralizzato; solo il cervello continua la sua attività, ma è prigioniero di un corpo immobile, come un palombaro nel suo scafandro. Ovvia sulle prime la disperazione e il desiderio di morte; infatti la malattia lo ha trasformato, lui così attento all’edonismo estetico ed etico, in un brutto tronco immobile, con la bocca storia, un occhio cucito e il resto del fisico sordo a ogni emozione.
Poi lentamente Jean esce dall’autocommiserazione, scopre che può ricordare e immaginare di tutto, perché la mente è ancora libera e vitale. Di più, con un enorme sforzo e l’aiuto di dottori, amici, affetti, servendosi del battito delle ciglia (la farfalla) dell’occhio valido rimastogli, riesce a comunicare giorno per giorno a una paziente collaboratrice le sue memorie. Due anni prima di morire, Bauby pubblica così la sua biografia, intitolata appunto Lo scafandro e la farfalla.
Come avviene in genere di fronte a eventi gravissimi, Jean comprende troppo tardi la forza dei legami autentici e rilegge in una serie di lampi la sua esistenza invidiabile e povera al tempo stesso. Il tutto senza ombra di moralismo o giudizio. Quando Schnabel parla di “inno alla vita” per il suo film, allude quindi alla rinascita di un uomo che in quelle condizioni impara a guardare il mondo in maniera nuova. Non un prigioniero, ma una persona la cui intelligenza e sensibilità rifiutano di essere ostaggio della malattia.
Oltre alla sentita interpretazione di Mathieu Almaric nel ruolo del protagonista, segnalerei la parte, piccola per quantità ma non certo per qualità, di Max von Sydow, che dà vita con tutta la fragilità e la saggezza della sua vecchiaia, a una bella figura di anziano padre.
Nonostante il tema trattato sia da far tremare le vene e i polsi, consiglierei anche ai migliori amici di vedere questo film così personale nella sintassi, audace nell’uso della macchina da presa, particolare per i contenuti. Olga di Comite
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