CRITICA a cura di Olga di Comite: Holmes è di quei personaggi-icona che possono essere adattati ai tempi senza perdere quasi niente del loro fascino e forse risiede proprio in questo il senso dell’operazione di Guy Ritchie che ce lo ripresenta oscillando tra il noto e l’irriconoscibile.
Persa la flemma britannica, americanizzato in parte con una sottolineatura di arti marziali, non esile e aristocratico ma un po’ mister muscolo con l’occhio moro e lampeggiante di Robert Downey Jr., l’investigatore più noto alla massa conserva l’intuito, l’erudizione, l’inclinazione alla deduzione filosofica che gli conosciamo da sempre. L’alter-ego Watson è presentato anche lui per un certo verso lontano dall’archetipo, soprattutto perché è un bello (Jude Law) e non un inglese bolso e un po’ tarchiato. Ma d’altra parte, come è nel personaggio tradizionale, sfodera una calma concretezza nelle situazioni, alternandosi ad Holmes nel gusto dell’autoironia, pur con ritmi e lampi minori.
E poi c’è l’Inghilterra vittoriana con una Londra (e un po’ anche Liverpool) riveduta al digitale, cupa il giusto, puzzolente come s’indovina, socialmente ingiusta, un misto di dinamismo economico e conclamata miseria. Qua e là la città appare costellata di cantieri e nascenti paesaggi industriali, colma di violenza ma anche di scambi, di solidi luoghi istituzionali e percorsa da traffici sulle acque livide del fiume.
Ma soprattutto nel film c’è un ritmo, una cura della gestualità, una disinvoltura dei personaggi sotto cui si sente la mano del regista esperto pubblicitario, più americano che anglosassone, il quale smonta con fantasia alla Parnassus e l’uso inesauribile di effetti speciali, la legnosità britannica delle vecchie rappresentazioni, a cominciare da Sherlock.
Certo, molto in quest’opera è legato all’interprete principale, passato dalla figura dell’eroe maledetto (non solo nella fiction ma anche nella realtà) a questo impasto di simpatia, intelligenza, mollezza, amichevole arroganza, abilità pugilistica che l’avvicinano subito al grosso pubblico e in particolare a quello giovane.
Ma veniamo all’intreccio senza sottacere che proprio in esso si rintraccia la parte debole del film, in quanto molto risulta sovrabbondante, parecchio non plausibile, diverse parti scarsamente scorrevoli. Si parte dai bassifondi, dove Scotland Yard dà invano la caccia ai capi di un’associazione segreta che vediamo subito all’opera con riti satanici, sacrifici umani, corruzione di tutto e tutti. Al vertice c’è però l’antagonista da battere, di cui smascherare finti poteri sovrannaturali e diretto commercio con il diavolo: si tratta di lord Blackwood (Mark Strong).
Costui, approfittando dell’avidità di potere di molti, li plagia per imporre il suo tirannico dominio sul mondo intero. Nel piano dell’impostore è compresa l’eliminazione del parlamento e la restaurazione di un impero che comprende anche il Nuovo Mondo. Qui l’intreccio fa boom. Sfugge. Si attorciglia, diventa noioso e scontato, mentre si passa da una situazione ad un’altra quasi senza perché. Ma il ritmo avventuroso, la prestazione degli attori, la ricostruzione stravolta ma rispettosa degli elementi base attira e suggestiona, mettendo in secondo piano incongruenze e banalità. Olga di Comite
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