CRITICA a cura di Olga di Comite: Si ritorna al cinema in una sala chiusa in queste seratine frizzanti di fine estate, nelle quali non si avverte più il bisogno di sfuggire al caldo nei locali all’aperto o semplicemente nel centro alto della città. E mi fa piacere che la ripresa delle mie note avvenga con il film di una donna e per di più una persona che ha respirato il cinema nella sua famiglia ed è riuscita a crearsi uno stile, un linguaggio suo, senza farsi schiacciare dall’ingombrante personalità del genitore.
Sofia Coppola l’abbiamo scoperta con "Lost in translation", ammirevole esempio di come si possa narrare per sottrazione, affidandosi a pause, a scarne e incisive parole, tipo poesia ermetica, a una fotografia che punta sul particolare dilatandolo, all’esaltazione del valore mimico del viso umano. Tali elementi della sua grammatica personale, insieme all’uso della macchina fissa, del piano sequenza e dello zoom, ritornano in quest’ultima prova, dove l’autrice disegna un ritratto di solitudine esistenziale e moderna alienazione.
Personaggio principale è Johnny Marco, un notissimo divo americano che tra un film, una premiazione, un’intervista trascina giorni sostanzialmente insignificanti. Luogo deputato del suo agitarsi senza muoversi, dei risvegli obnubilati, del continuo attaccarsi alla bottiglia, del nutrirsi di orrendi cibi e di insipide prove erotiche è un albergo di Los Angeles, lo Chateau Mormant, noto per divenire spesso rifugio sostitutivo della casa per molte star.
La regista usa quasi tutto il primo tempo per definire il suo ritratto, a partire dagli insensati ma simbolici giri di pista che il protagonista compie sulla Ferrari nelle prime inquadrature del film. All’inizio il ritmo è decisamente lento e tale rimane, come ho già detto, con alcune citazioni all’Antonioni. Accadono soltanto i riti del quotidiano, svuotati di qualsiasi partecipazione vera, tutto si svolge nel “deserto rosso” dei sentimenti, il divo si lascia vivere continuando la propria inerzia emotiva e subendo passivamente ogni tipo di moda.
Poi nel suo albergo-abitazione arriva, per fermarsi un po’ più a lungo del solito week-end col genitore divorziato, la figlia undicenne Cleo. A partire da questo momento qualcosa accade. La forza “"seduttiva” della ragazzina che vuole conquistare il padre assente e distratto, si dispiega con tutta la grazia e la forza dell’età. Nasce tra i due un colloquio fatto di complicità, sguardi che si parlano, piacere di stare insieme e tali sentimenti, anche quando la figlia va via per il suo campo estivo, continuano a scavare dentro il padre. Così nelle ultime scene Johnny ritrova la capacità di scelta e di azione nella realtà, buttandosi alle spalle il vuoto e il falso. La Ferrari nera viene abbandonata sul ciglio di una strada extraurbana mentre il protagonista si allontana a piedi. La sua palingenesi comincia da qui.
In quanto alla recitazione non sembra significativa la prova di Stephen Dorff, mentre efficacissima risulta la deliziosa adolescente Elle Fanning con il suo muso triangolare e lo sguardo di chi la sa più lunga di quel padre inaderente e imbambolato. E’ su questo personaggio di piccola donna che si appunta l’intuito della regista e la capacità di raccontare una persona tramite mezzi minimali, senza drammi né patetismi ma con una asciuttezza non distante. E’ questa capacità, insieme alla fotografia di grande impatto visivo, a costituire la parte migliore del film.
Nel complesso l’opera avrebbe guadagnato da un ritmo meno lento e tedioso come quello della prima parte, poiché uno stile, un linguaggio può diventare noiosamente formale se l’autore lo usa abusandone. Olga di Comite
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