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RECENSIONE FILM THIS MUST BE THE PLACE

THIS MUST BE THE PLACECRITICA a cura di Olga di Comite: Realista - visionario: mi viene in mente un ossimoro per inquadrare una personalità come quella di Sorrentino, scrittore originale oltre che regista, e creatore di immagini (quelle da visione e quelle da realtà) indimenticabili.

Se poi la specificità del linguaggio è esaltata da una interpretazione come quella di Sean Penn, ricca di sfumature, difficile da mantenere in equilibrio senza cadere nel ridicolo grottesco e intensa fino al drammatico, si ha un’idea della forza di questo film.

Né si può tacere dei comprimari eccellenti: una per tutti Frances McDormand nel ruolo della moglie del protagonista, donna concreta, pronta al sorriso e all’empatia, in netto contrasto con la lentezza triste del marito. Ci sono poi altri due elementi che contribuiscono a rendere quest’opera difficile da dimenticare. Alludo alla espertissima fotografia di Luca Bigazzi, volta a sottolineare la cura estrema e il coraggio estetico dell’autore, che riprende dall’alto e di lato, esalta i dettagli fino al grottesco, insinua rapidi flash all’indietro nella narrazione. Infine citerei la colonna sonora di David Byrne nonché la scena in cui egli canta la canzone che dà il titolo al film; alle spalle del cantante, Sorrentino su un piano perpendicolare mette in scena simbolicamente il passato con un effetto complessivo straordinario.

Altra sequenza indimenticabile sul piano linguistico si trova nelle ultime sequenze. L’ex-nazista ormai vecchissimo compare nudo in mezzo alla neve: in quell’inquadratura estremamente realistica e insieme simbolica c’è tutta la ferocia del tempo che passa sui nostri corpi e l’umiliazione dell’umanità. Quel vecchio senza abiti, sulla neve, in una luce bianca, muove il protagonista a pietà più che a vendetta. E’ il momento in cui si capisce che il protagonista si è finalmente liberato della maschera di cerone che ne celava la vera identità.

Questo mio discorso sul linguaggio di Sorrentino non esclude però un pensiero. Anzi, l’opera è una delle più intimiste e ricche del regista, ma bisogna andare a scegliere fra tutto ciò che compare per ritrovare il filo narrativo. Esso altro non è che una ricerca di verità diluita in un percorso di vita.

Cheyenne, il protagonista, è un rocker cinquantenne lontano oramai dalla scena e abbastanza ricco. Egli trucca come ai vecchi tempi il proprio viso sfatto nel quale si intravede un dolore profondo legato a molte perdite che costituiscono il fardello portato dietro con passo stanco e lento.

Egli vive sotto il trucco eccessivo che lo preserva da una nuova identità tutta da creare. Compare quasi come un fantasma in una casa bianca e singolare, accanto alla moglie che gli fa da madre, sfiorando, col suo sguardo bambino, cose e persone. In realtà, come i bimbi, vede particolari che altri non colgono, sui quali è capace di sintetica ironia. Dondolante l’andatura, bassa la voce, ma indicibilmente espressivo lo sguardo ingenuo o remoto a seconda del contesto.

Finché a Cheyenne non muore il padre ed egli entra finalmente in contatto con quell’estraneo fondamentale in ogni crescita che si rispetti. Lasciata l’Irlanda e raggiunti gli States comincia un on the road che ricorda molto Wenders e Antonioni, ma che risulta singolare pur se già visto. Strana infatti e inusuale è la meta di questo andare. Il rocker cerca un ex-aguzzino nazista che ha profondamente umiliato in passato il padre ebreo e perciò da lui ossessivamente inseguito per tutta la vita.

Nel viaggio del figlio tanti sono gli incontri, surreali o emblematici, ma tali da far capire a Cheyenne qual è il suo “posto”. Forse Sorrentino con questo film si è un po’ riconciliato anche con se stesso. Ma una cosa è certa: la sua straordinaria attenzione alla complessità semplice della realtà muove alla riflessione lo spettatore. Mi accorgo di avere usato ancora un ossimoro alla fine di questa analisi: sarà un caso o l’uso è ineludibile in tale contesto? Olga di Comite
VOTO:

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