CRITICA a cura di Olga di Comite: Il film drammatico, ma non angoscioso, scivola via su battute intelligenti nella prima parte, sul versante amaro nella seconda, seguendo lo sguardo con cui il regista abilissimo concilia la storia di una crisi individuale con quella globale di cui gli Usa sono autori e vittima insieme.
Autore giovanissimo ma già determinato nelle scelte, “ho deciso di realizzare solo film in cui credo” (i due precedenti sono Thank you for smoking e Juno), Reitman si è ispirato a un romanzo di Walter Kirn, ma alla fine di un lavoro di sei anni ne ha fatto una sceneggiatura quasi riscrivendolo. Via via che la storia cresceva tra le sue mani, montava anche la depressione economica mondiale che, pur non essendone il centro, ne ha condizionato in qualche modo la stesura. Non a caso i lavoratori licenziati che vi compaiono sono “veri”, i dialoghi sono ciò che hanno detto o avrebbero voluto dire al datore di lavoro, la canzone che chiude i titoli di coda è stata scritta da un disoccupato sulla cinquantina.
E veniamo al resto, non prima di un cenno al titolo, metafora di tutto il racconto. Dove “nuvole” è la realtà della vita del protagonista che per lavoro viaggia in aereo circa 320 giorni l’anno ed ha come massimo obiettivo il record di dieci milioni di miglia aeree per essere uomo simbolo delle American Airlines. Ma nuvole significano anche altezza, solitudine, bellezza suggerita da questi morbidi e mobili arredi celesti.
Tra di esse si muove come a casa propria il protagonista. Questa è l’unica dimora che ha, il non-luogo degli aeroporti, terminal lussuosi, grandi alberghi, ascensori e parcheggi. Questo cinico dei giorni nostri con valigia incorporata, carte di credito e non di tutti i tipi, tecnologie a portata di mano, è preparatissimo nell’ottimizzare i tempi e le operazioni di imbarco ed è un professionista di ferro nel suo lavoro che svolge con rodata competenza. Salvo che il suo compito è quello di licenziare personale per conto di aziende in crisi i cui manager non vogliono sporcarsi le mani personalmente.
Ryan Bingham (George Clooney) si muove per questo da un luogo all’altro degli States là dove c’è bisogno (soprattutto di questi tempi) di procedere al più lacerante dei compiti: privare qualcuno della sopravvivenza e della dignità. Ma Ryan lo fa con stile, con formule che attutiscono l’impatto e costituiscono quello che nella sua filosofia da venditore egli definisce il “limbo” dove si accompagna la vittima prima della voragine. Tutto va finché una giovane rampante non trova che si può licenziare facendolo in video-conferenza perché si risparmia tempo e si spende meno. Come dire che i tagliatori di teste sono troppo umani per il nostro futuro assetto.
Nel frattempo l’ideologia del viaggiar leggeri senza casa, senza affetti, senza relazioni se non occasionali, va in crisi per Ryan perché gli sporadici incontri con Alex (la fascinosa Vera Farmiga) si stanno trasformando in qualcosa di serio. In occasione del matrimonio della sorella rispuntano anche i familiari (la parte più debole, quasi risibile, come sceneggiatura, del film). Ma a parte queste cadute ingenuamente schematiche all’americana maniera, c’è il bravo Clooney che con qualche piega in più sul bel viso e al di fuori di ogni gigioneria da strapazzo ci regala un personaggio di forte espressività. Mai sopra le righe, il giusto tocco di cinismo mescolato alla classe naturale si unisce alla bontà dello sguardo che nemmeno il ruolo di tagliatore di teste riesce ad eliminare. Olga di Comite
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