CRITICA a cura di Olga di Comite: Un film su un mistero politico simile a molte delle nostre stragi, in quanto rimasto senza autori certi e senza che sia stata fatta giustizia, ma c’è una discriminante forte che non permette paragoni se non superficiali ed empirici.
A morire (e non voglio dire da eroi, parola spesso usata a sproposito) sono infatti dei monaci che si sono stabiliti in un piccolo convento sui monti dell’Atlante, in una località algerina. Essi hanno scelto di testimoniare la propria fede vivendo a stretto contatto con un villaggio musulmano che i frati assistono con cure mediche fornite da un confratello e che frequentano mischiando le loro vite con i fratelli di fede diversa. Li vediamo perciò partecipare alle cerimonie religiose e alle prediche dell’imam o frequentare il mercato locale vendendo il miele di propria produzione.
Alla vita di relazioni sociali all’esterno il film alterna scene della vita quotidiana dei monaci, nove in tutto, all’interno del convento.
Tra quelle mura si svolge un’esistenza semplice, fatta di piccole attività ripetute, di pasti, preghiere e canti in comune con qualche accenno di umane passioni (paure, gelosie, contraddizioni) di peso non trascurabile. E’ infatti per questo motivo che riusciamo a sentirceli vicini questi uomini di Dio in saio, sia quando la loro vicenda volge verso il dramma e diventa più alta, sia quando si mostrano nel loro essere uomini vacillanti e deboli, in modo tale che sembra rompersi la compattezza del gruppo.
Tutti i caratteri sono narrati con verità ma due sono le interpretazioni che colpiscono anche chi, come me, non è credente. Si tratta delle due figure più autorevoli tra i frati: padre Christian (un commovente Lambert Wilson) e padre Luc (Michael Lonsdale), forse il più convincente nella sua saggezza e forza, che cura senza discriminazioni cristiani, musulmani e terroristi. Parola quest’ultima che esige una spiegazione circa il contesto in cui la storia si pone. Ma prima un cenno al paesaggio incontaminato sia quando si mescolano i riflessi dorati delle terre e gli azzurri dell’acqua di un fiume sia quando le forme, ora dolci ora puntute della catena dell’Atlante si innevano. Suggestive anche le immagini da vangelo animato o da ultima cena stilizzata verso la fine del racconto, quando la sorte dei frati sta per compiersi. Niente trionfalismi retorici, solo le teste di uomini diversi in primissimo piano.
E veniamo ai fatti storici. Siamo nel 1966; l’Algeria vive uno scontro civile tra musulmani moderati e terroristi fanatici, che seminano violenza e sangue. Al potere un governo incapace e illegale di militari corrotti che hanno impedito al Fronte musulmano, vincitore delle elezioni, di governare. Sotto il tiro del fanatismo cadranno sette anche dei nostri frati, mentre due riescono a nascondersi e a salvarsi.
Dopo alcuni mesi dal loro rapimento saranno ritrovate solo le teste mozzate, mai i corpi. Su come realmente si siano svolti i fatti ancora oggi ci sono pesanti interrogativi e un’inchiesta in corso. Quello che sappiamo però è che la storia porta a meditare su come le fedi possano convivere nella pace e su come sia facile che l’amore per un dio possa mutarsi in odio per le creature. Infine un grazie all’autore per non aver cercato l’effetto facile con le immagini dell’esecuzione: i frati scompaiono dalle schermo piano piano, dissolvendosi nel chiarore notturno della neve insieme ai loro aguzzini. Olga di Comite
VOTO:
CRITICA a cura di Roberto Matteucci: “Non ho paura della morte. Sono un uomo libero”.
In Algeria nel 1992 un colpo di stato militare annullò la vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza. Fu l’inizio di terribili violenze, crudeltà ed atti terroristici fra l’esercito e le organizzazioni islamiche fondamentaliste entrate nella clandestinità.
Nel 1938 a Tibhirine sulle montagne di Atlante in Algeria fu fondato un monastero: Notre-Dame. Quando accadeva il colpo di stato il monastero era gestito da otto monaci trappisti. Era un monastero senza comunità; nei paesi vicini non vivono da tempo cristiani ma solo musulmani. Tra il 1992 ed il 1995 in Algeria furono uccisi cinque religiosi cristiani – tra sacerdoti e suore. Nel 1996 sei monaci del monastero Notre-Dame ed un altro monaco in visita furono sequestrati ed uccisi da gruppi islamici in clandestinità.
Uomini di Dio, il film di Xavier Beauvois, ci presenta l’interno di quel monastero nel periodo antecedente il sequestro. La vita dei monaci non è semplice. Non sono degli illusi, conoscono gli avvenimenti intorno a loro: le violenze e soprattutto i pericoli quotidiani del vivere solitari in un luogo. In quei monti si nascondono molti terroristi. Il conflitto, il contrasto, la fede ma anche la paura umana dei monaci sono i temi principali.
Non sono e non vogliono essere dei martiri. Sono uomini di Dio, uomini di fede. Proprio la loro fede li aiuta a comprendere e rispettare quella degli altri. Con la comunità di Tibhirine i rapporti sono cordiali eppure parlano lingue diverse, c’è un fossato intorno a loro. Sono apparentemente benvoluti anche per la presenza dell’anziano monaco Luc, medico, il quale cura indistintamente chiunque si presenti al monastero, terroristi compresi. Ma questa benevolenza non li aiuterà. Pur vedendo, nessuno, nel villaggio islamico, cercherà di salvarli. Questa è vera solitudine: il vuoto intorno a sé, nessuno che possa comprendere. Il dissidio e la contrapposizione fra i monaci – sulla scelta migliore: restare o andare – è una forte divergenza interna, prevalentemente spirituale.
Il film alterna momento di preghiera solitaria, interiore, soprattutto silenziosa dei Monaci con momenti di vita sociale: la cura degli ammalati, la coltivazione di frutta, la loro vendita al mercato. Questo confronto è la replica della loro intrinseca coscienza. Come pure la presenza di scene di violenza avvicendate con spettacolari panoramiche sulla natura e sulla bellezza del posto: segno indiscutibile della presenza di Dio.
La bellezza può allietare l’animo di Padre Christian nelle sue passeggiate, ma non elimina la paura. I singoli monaci parlano alla camera, ripresi in primo piano, su sfondo bianco per liberarsi delle loro ansie, del conflitto di continuare la loro opera o di ritirarsi in posti più sicuri. Sono uomini principalmente, non sono solo monaci. L’orrore circostante è in contrasto con il loro dovere. Sono sempre due i binari su cui prosegue il film. L’ansia e la preoccupazione per il mondo di fuori sembra frenato dalle mura del convento. Da una parte i monaci ed i loro riti, con i primi piano degli arredi sacri, mentre fuori c’è la guerra. Quelle mura sembrano robuste viste dall’interno, soprattutto per persone piene di fede dentro. L’angoscia è tutta fuori. Forti da questa consapevolezza i monaci rifiuteranno di andarsene e soprattutto di accettare la protezione dei militari. La scelta non è stata facile. Consapevole di questa preoccupazione l’anziano monaco Luc trova conforto solo nell’abbraccio della riproduzione della Flagellazione di Cristo di Caravaggio.
Nel momento più profondo del film il medico appoggia la testa sul corpo sofferente di Gesù; le scelte possono essere fatali ma inderogabili. Così come padre Christian scrive nervosamente sotto lo sguardo della Madonna di Antonello da Messina. Spera di trovare le parole, spera di comprendere attraverso lo studio del Corano: la soluzione del dilemma umano regnante nel monastero.
Il finale non è il loro sequestro, quella è solo storia. La fine è loro ultima cena. Con la colonna sonora del canto del cigno i monaci celebrano il loro ultimo pasto da uomini liberi, quindi senza paura. La tragedia incombe, ma loro sono sereni e sorridenti. La musica è forte perché nessuno deve pensare, tutti hanno fatto atto di fede e sarà proprio la loro fede a portarli alla morte. Il monaco Luc alla domanda se ha paura risponde: “Non ho paura della morte. Sono un uomo libero”, e così gli otto monaci moriranno da uomini liberi e profondamente soli. Roberto Matteucci
VOTO: