CRITICA a cura di Olga di Comite: Non ho un particolare interesse per il genere western e tanto meno per il celebratissimo Sergio Leone e la sua operazione di riconversione ironica all’italiana.
Tuttavia il duo ebraico americano è tra gli autori preferiti e sapevo che, comunque, non avrei visto un brutto lavoro. Così è stato. Perché anche se la storia non ha nulla di speciale, fotografia sceneggiatura e regia mi sono sembrati di gran qualità. Citerei ad esempio due sequenze. Quella del processo nel polveroso abitato di frontiera (ultimi anni dell’Ottocento) dove gli stereotipi del genere si animano, prendendo sostanza e verità, e diventano un piccolo quadro storico del periodo; l’altra è la scena finale, di gran classe nella sua eleganza e semplicità.
Ma un po’ tutto il film è tradizionale e insieme modernissimo nel linguaggio. Penso che bene abbiano fatto i Coen a tenere d’occhio il libro di Charles Portis da cui il film è tratto, piuttosto che l’opera omonima di Hathaway con un John Wayne al tramonto, premiato con l’unico Oscar, ma non per questo più convincente del suo solito.
I fatti sono ambientati nell’Arkansas e al centro dell’azione c’è una ragazzina di quattordici anni, Mattie Ross (Hailee Steinfeld) che vuole vendicare a ogni costo l’uccisione dell’amatissimo padre ad opera di un vile rapinatore fuggito poi nelle terre indiane. Non potendo agire da sola, l’ostinata e coraggiosa adolescente assolda per catturarlo uno sceriffo, Reuben Cogburn (Jeff Bridges), noto per essere spietato, burbero, ma pieno di esperienza. Ai due nella ricerca si unisce poi il texas ranger La Boeuf (Matt Damon), il quale è interessato soprattutto alla taglia pendente sul criminale.
Da questo momento in poi il film racconta con una voce fuori campo gli episodi di un road movie attraverso boschi e vallate americane che fanno da sfondo e che i Coen sanno descrivere con rara sensibilità grazie anche a suggestive dissolvenze. La sceneggiatura, efficace nei dialoghi, è tesa a valorizzare le tre diverse psicologie dei personaggi principali, delle quali la più riuscita è certo quella della ragazzina.
Non mancano poi figure minori, alcune ricreate con fantasia rinnovata dagli autori, altre più banali, ripescate dal repertorio classico del genere. Discutibile il doppiaggio, un po’ fastidioso per il falsetto esagerato. Immancabile il finale che premia i buoni e punisce i cattivi.
Forse il film non è esaltante proprio perché è ben confezionato ma senza sorprese o divertenti e profonde dissacrazioni tipiche dei nostri registi. Scontata anche la bravura di Jeff Bridges, troppo perfetto nel ruolo dell’ubriacone tutto cuore e rozzezza. Decisamente modesta e scolorita la prestazione di Matt Damon e non è la prima volta che mi tocca di notarlo. Olga di Comite
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