ANNO: U.S.A. 2006
GENERE: Drammatico
REGIA: David Lynch
CAST: Laura Dern, Jeremy Irons, Harry Dean Stanton, Justin Theroux, Diane Ladd, Julia Ormond, William H. Macy.
DURATA: 168 '
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TRAMA: La storia di un mistero... il mistero di un mondo all'interno di altri mondi... che si svela intorno a una donna... una donna innamorata e in pericolo...
CRITICA a cura di Alessio Galbiati:
Oh sinnerman, where you gonna run to
Sinnerman, where you gonna run to
Where you gunna run to
All on that day
(Nina Simone – Sinnerman)
Con INLAND EMPIRE ci troviamo dalle parti di Mullholland Drive (2001) e Lost Highway (Strade perdute, 1997) ma con la provocatoria vena avanguardista dell'esordio (Eraserhead, 1977).
INLAND EMPIRE è una caleidoscopica collezione di immagini legate fra loro alla maniera degli elementi che compongono un sogno (come pure degli incubi). Sogni, incubi, psiche, mente... l'oggetto non è definibile ma collocabile: inland, all'interno. Ma di cosa? Il distributore italiano al solito si intromette gettando luce su d'un titolo completamente oscuro (letteralmente oscuro se si pensa ai titoli di testa dove dal nero assoluto del quadro emerge la scritta INLAND EMPIRE illuminata da un esile fascio di luce); “L'impero della mente” è una didascalia che vuole instradare lo spettatore su d'una via interpretativa perturbante ma rassicurante. Inland di cosa? Della “mente” è davvero la risposta più rassicurante alla quale possiamo giungere...
Per comprendere l'oggetto in questione, o quanto meno per provare a smontare un qualcosa che somiglia alle costruzioni impossibili di Escher (LINK), prendiamo in esame un elemento isolato del corpo (autopsia critica) e compiamo una piccola analisi attorno ad esso. I TITOLI DI CODA sembrano quasi un elemento estraneo al film perchè riaffiorano da una dissolvenza a nero piuttosto lunga che sembra dare l'impressione che il film sia forse già finito. Questo pone una soglia fra questa sequenza ed il resto del film. Laura Dern è seduta sul divano evocato a mò di profezia all'inizio del film, insieme all'inquietante donna che (sempre) all'inizio della storia la mette in guardia su quel che si cela nel suo futuro. Un gruppo di ragazze balla ed una di loro canta in playback la canzone di Nina Simone intitolata “Sinnerman” (peccatore). Nella stanza è come se ci fossero tutti i personaggi dei film di Lynch, c'è addirittura l'attrice Laura Harring (Rita in Mullholland Drive) che sorride a noi poveri spettatori come se niente fosse. Un luogo simile, assoluto e atemporale, era la loggia (quella coi drappi rossi alle pareti, il pavimento a quadri bianchi e neri e con il nano che parlava al contrario come sindaco) della serie tv Twin Peaks replicata in Twin Peaks – Fuoco cammina con me, luogo terribile e sublime entro il quale aveva accesso il solo tenente Cooper che grazie alla pratica della meditazione trascendentale era in grado di comunicare con forze ultra-terrene (su questo, in relazione alla funzione deviante, perchè rassicurante, della didascalia voluta dal distributore tornerò in seguito).
Profusione di luci intermittenti, sincronizzazione audio-visiva perfetta. Il playback nel cinema di David Lynch è una struttura ricorrente, marca autoriale che corre sottotraccia in tutta la sua filmografia e che qui addirittura chiude la più geroglifica delle sue regie. Non è un dettaglio di poco conto perchè il playback nel cinema di Lynch coincide con sequenze di sospensione temporale dove la comprensione delle trame interne al film riesce ad emergere in maniera assai chiara. Lampi di cinema a fortissimo gradiente semantico, assonanze di senso capaci di premiare lo spettatore rapito dalle montagne russe della comprensione d'un testo sfuggente. Penso alla sequenza del Club Silencio in Mullholland Drive, alla meravigliosa conclusione di Wild at Heart in cui Nicolas Cage canta tutto il suo amore (Love Me Tender) ad una follemente innamorata Laura Dern, alle antologiche sequenze contenute in Velluto Blu che vedono una Rossellini di blu velluto vestita cantare la canzone che da il titolo al film e sopratutto uno strepitoso Dean Stockwell mettere in scena, con una lampada da meccanico puntata in faccia, In Dream di Roy Orbison (in ambito non cinematografico è d'obbligo ricordare l'esistenza della registrazione video dello spettacolo Industrial Symphony no.1, interamente costruito attorno alla pratica del playback). Cosa rivela questa beffarda conclusione all'interno della quale come in un carnevale tutte le maschere apparse nel sogno ad occhi aperti che per quasi tre ore ci è passato davanti agli occhi si affollano in una inquadratura troppo piccola per accogliere le soluzioni di tutte le nostre domande? Il playback in David Lynch rivela che ciò che si sta vivendo è, in realtà, un'illusione (qui addirittura corrono sopra le immagini, al centro dell'inquadratura, i credits!!!). E' in primis un atto di conoscenza e poi di consapevolezza messo a disposizione da un autore illusionista, che con un tipico colpo magrittiano ci racconta che la pipa che stiamo vedendo non è in realtà una pipa. Dunque questo segmento conclusivo è un semplice divertissement: semplice disvelamento d'un film che è un film su di un film? Credo di no e questo è fondamentalmente riscontrabile nella scelta musicale intrapresa.
“Sinnerman” è una canzone disperata, straziante. Un'invocazione di salvezza e redenzione che prorompe in un disperato pentimento, un grido, una preghiera urlata, un pianto lacerante. La lingua della canzone è quella dei vecchi gospel di un'america profonda e misteriosa, la voce di Nina Simone amplifica questo genere musicale col suo inconfondibile timbro vocale ma sono sopratutto le parole, il testo (LINK) di questa bellissima poesia musicale, ad irradiare la conclusione della pellicola d'una luce imprevedibile fino a quel momento.
«Oh power, / Power, lord / Don't you know that I need you, lord / Don't you know that I need you / Don't you know that I need you / Oh lord, please / Oh lord / Oh lord».
Questa è musica sia empatica che anempatica, che esprime direttamente la propria partecipazione alla scena ed al contempo è pure indifferente a ciò che si svolge in scena. I titoli di coda sono un'orchestrazione audiovisiva concretata attorno al progetto della massima enfatizzazione del testo cantato dalla voce (totalmente) extra-diegetica finalizzato allo scoperchiemento esoterico delle correnti mistiche e surreali che attraversano il film. La regia di Lynch si cura di caricare emotivamente i passaggi del testo più dolorosi e disperati. Magistrale l'energia scatenata dalla reiterazione della frase «Oh Power, Power Lord».
Pare di capire allora che Lynch voglia parlare sia de “L'IMPERO DELLA MENTE” che de “L'IMPERO DEL DIVINO” intendendo con questo la chiara ricerca d'un appiglio ad una dimensione superiore, razionale... eterna. Una dimensione talmente distante ed a noi superiore da poter regolare i nostri destini e le nostre esistenze e con la quale è necessario trovare armonia (ancora in Twin Peaks – Fuoco Cammina con me, si pensi alla sequenza conclusiva della riconciliazione dello spirito di Laura con la propria anima raffigurato in un'ascensione angelica nel “regno dei cieli”). Tornano alla mente parecchie “entità” di questo tipo nel suo cinema, su tutti gli Dei ultraterreni che regolavano il mondo di Henry Spencer da un oscuro altrove in Eraserhead. Ed appare allora non completamente anacronistico affermare che questo “all'interno” (inland) possa essere considerato quello stato mentale al quale giungere dopo l'esplorazione meditativa della propria mente, un interno talmente profondo da poter abbracciare il tutto, quell' “IMPERO” che è unione armonica delle polarità messe in campo costantemente dal cinema di Lynch. Un cinema fatto di una moltitudine di opposizioni dialettiche poste senza alcuna necessità di sintesi che però al momento della conclusione (della pellicola?) si addensano in poche inquadrature capaci di dare senso al discontinuo (non ne cito alcuna, provate a portare alla mente le ultime inquadrature dei film di Lynch e scoprirete che spesso proprio in quei quadri sono sciolte le intere vicende che per ore vi avevano attanagliato la mente di amletici dubbi spettatoriali).
La scelta rassicurante della distribuzione risiede allora nel voler minimizzare la dialettica irradiata dai proiettori, perchè la mente non è il solo impero esplorato, è solo quello più “comprensibile”, il resto è cosa complicata definire cosa sia, ci vorrebbe un lessico che non possiedo sempre che una riduzione linguistica sia possibile, sempre che i film non siano roba che bisognerebbe guardare e basta.
Che lo si voglia o meno, questo film è un capolavoro! Alessio Galbiati - Kulturadimazza (LINK)
VOTO: 10
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