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IN THE CUT

In the CutANNO: U.S.A. 2003

GENERE: Thriller

REGIA: Jane Campion

CAST: Meg Ryan, Mark Ruffalo, Kevin Bacon, Jennifer Jason Leigh, Nick Damici, Sharrieff Pugh.

DURATA: 120 '

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TRAMA: Frannie Thorstin (Meg Ryan), insegnante di New York incline al rischio e alle emozioni forti, si ritrova ad essere involontaria testimone del preludio di un agghiacciante ed efferato omicidio. Tra irrefrenabili passioni, pericoli, tradimenti e colpi di scena il detective James A. Malloy (Mark Ruffalo) la accompagnerà in una rischiosa ricerca di indizi sui terribili omicidi che stanno terrorizzando il quartiere...

CRITICA a cura di Olga di Comite: Un vento tiepido (lo si indovina) fa cadere petali bianchi da cespugli fioriti nei giardinetti di una periferia di New York, poi una pattinatrice bellissima incontra su una pista ghiacciata il suo amore e i due scivolano in un abbraccio danzato, mentre l'immagine vira verso un color seppia da flashback e la macchina a spalla ritorna a inseguire i movimenti un po' a scatti della donna di spalle. Sono queste le prime sequenze di In the Cut, tanto belle da essere quasi manierate, ma tipiche della sensibilità dell'autrice di "Lezioni di Piano". Si tratta però solamente di un breve respiro, poi la Campion ci guida in una città sordida e sporca, triste e ferita come i personaggi che popolano i suoi bar, le strade buie, i locali malfamati, gli appartamenti angusti e un po' kitsch. Niente a che vedere con la Manhattan dei ricchi intellettuali o con gli shopping-center di lusso. E' in questi luoghi che vive la protagonista Frannie (Meg Ryan), uno di quei ritratti di donna in cui la Campion è maestra e cui l'attrice presta un aspetto diverso dal solito, spento, con una rete di rughine in agguato e la pelle imperfetta. Il film, tratto dal romanzo "Dentro" di Susan Moore, che ha collaborato anche alla sceneggiatura, si snoda entro i binari dell'erotic-thriller. Ma mentre l'analisi dell'erotismo triste e turbato dei protagonisti e in particolare di Frannie, vogliosa di peccato ma bloccata da complessi edipici, ha una sua bellezza, giustificando in pieno le scene hard di fellatio, autoerotismo, dialogo osceno, lo sviluppo del thriller è discutibile. L'autrice infatti non è a suo agio e occhieggia spesso film già visti ("Una squillo per l'ispettore Klute", "Basic Instinct", ecc.), perdendosi nel circuito della banalità, alla ricerca di effetti non riusciti, mentre la sceneggiatura pecca di sbavature e i personaggi minori sono tagliati con l'accetta. Eccezion fatta per Jennifer Jason Leigh, nella parte della sorella di Frannie, brava come al solito nel dar vita a un personaggio tra cinismo, ingenuità, realismo e sogno, ma comunque più ancorata alla vita di quella sorella insegnante che non riesce a stabilire relazioni, raggelata com'è dentro i suoi problemi. L'incontro con un ispettore di polizia (Mark Ruffalo), che indaga su crimini efferati a danno di giovani donne, smembrate e straziate dal solito serial-killer, sarà come avvicinare la paglia al fuoco, anche se, umida com'è, la prima farà fatica a bruciare. Nell'incontro tra i due permane comunque questa cifra di eros faticoso e angosciante che va verso il nulla, mai liberatorio e solare, sempre intriso di un certo spirito del male, anche quando il rapporto evolve verso il sentimentale. E solo se si riflette sull'elemento contraddittorio del puritanesimo americano, si capisce perché il film sia stato ampiamente censurato in America e così poco gradito al suo pubblico. Il paese che produce immagini tra le più violente, che fa scorrere il sangue esaltando l'epica della guerra, che incoraggia l'industria porno e pullula di sexy-shop, ammette immagini senza veli solo nei circuiti hard, non riuscendo ad accettare tutto quello che, sul piano dell'erotismo, non è facilmente classificabile. Che a scendere nei bassifondi dell'animo e delle pulsioni sessuali sia un insegnante e per di più donna, non quadra molto con gli schemi circa il femminile dei perbenisti o meglio di chi rinuncia a capire, a investigare la realtà, anche la più sgradevole e profonda. Questo non è certo il caso di Jane Campion, anche se In the Cut ha moti limiti e non è di sicuro un'opera riuscita. Se poi Mark Ruffalo diventerà il Marlon Brando del futuro (un po' gli somiglia) e Meg Ryan riuscirà ad entrare nell'immaginario del pubblico come simbolo erotico, sarà il tempo a dirlo. Olga di Comite

VOTO:

CRITICA a cura di Marta Rizzo: LO SGUARDO DI IN THE CUT - New Jork, nel film di Jane Campion, è una città da annusare, da scrutare fin dentro i suoi più infimi quartieri. In the cut non è un film avvincente, pur trattandosi di un triller: ha una trama piuttosto banale, alle volte noiosa. Ma, come spesso accade, non è la storia a dare vita a un buon film, bensì il racconto, ovvero il modo in cui esso viene costruito. Certamente, gli omicidi di giovani donne indagati da un bellissimo commissario di polizia di origine italiana, che si innamora di un'altrettanto bella donna, ricamano un intreccio che lo spettatore segue senza fatica. La fatica vera, invece, sta nel guardare. Ed è per questo motivo che non si parla di questo film volendone sottolineare risvolti eclatanti o sorprese sconvolgenti. Questo film va "guardato". Il valore dello sguardo è, d’altra parte, l'elemento cardine del cinema. Jane Campion, dunque, guarda. Con un'attenzione, una fuggevolezza, una capacità di penetrazione rari, preziosi per il cinema stesso. La regista australiana entra nella New Jork sconquassata dopo il settembre 2001. Entra in quella città e osserva alcune bandiere americane. Sono 3 immagini retoriche che si inseriscono perfettamente in quello che più interessa sottolineare di questo film: la capacità documentaristica, che diventa il sottotesto di una trama debole e Mag Ryan, bella e bravissima, è il personaggio che descrive quel sottotesto. Frannie è un'insegnante universitaria che, alle sue prime battute, denuncia di non svegliarsi mai felice, al mattino. E di cosa dovrebbe gioire? E' un personaggio triste, è una giovane donna sola, che trascina per le strade luride della città valige piene di libri, che scrive, ovunque le capiti, parole e piccole frasi desuete o che non conosce e che, nella sua piccola e trasandata casa, riempiono le pareti, quasi fossero un puzzle. Questa bella donna sola si muove per la città in una metropolitana che diventa il primo, affascinante elemento di quel documentario che la Campion ha sapientemente costruito. Lo sguardo della ragazza, disilluso, abulico, miope, legge sui pannelli dei treni della metro frasi celebri della letteratura di tutti i tempi e, accanto alla bellezza delle parole, osserva la bruttezza e la sciatteria del suo mondo. Volti spenti, barboni questuanti, una giovane sposa nera che attende il proprio treno con un velo in mano, senza alcuna espressione in volto. Meg Ryan, finalmente, non è più la ragazzina romantica di "C'è posta per te", che ammira una bellissima farfalla svolazzare nella patinata metropolitana di una New Jork affascinante, intellettuale, pulita, dai bei caffè e dalle belle case di Manhattan. Nelle studiate, precise, e attente immagini di In the cut, Meg Ryan è splendida nella sua sciatta vita cittadina. Lei stessa, è la personificazione della città: stanca, sola, fastidiosa nella sua indolenza, nella sua mancanza assoluta di vitalità. L'unico elemento vitale, in lei, è la consapevolezza della necessità del sapere. Insegna ad alunni anch'essi stanchi, si trascina dietro un giovane studente nero, l'unico, forse, che le dia qualche motivo di soddisfazione. Quello studente nero è un clichè, ma anche un personaggio adatto al documentario. La sua lingua sporca e sporcata, i suoi muscoli, la faccia segnata, i tatuaggi, il tentativo di stuprare Frannie stessa. Questo personaggio aiuta a rendere sgradevole la visione. Una sgradevolezza che assume toni quasi romantici, invece, nella figura della sorellastra della protagonista. Nate da madri diverse anche nel carattere, a quanto si può percepire dalle poche battute sul loro passato, le ragazze hanno avuto lo stesso padre, un padre romantico, nei ricordi di Frannie, e un padre distante, nei ricordi della sorella prostituta. Ed ecco un nuovo clichè: in un film sporco, il nero e la prostituta non possono mancare. Ma, così come lo studente rappresenta una flebile ragione di vita per la giovane insegnate di letteratura, allo stesso modo, la sorellastra prostituta rappresenta l'unico, disperato affetto per la ragazza sola. Niente di originale nel ciccione travestito nero che protegge le ragazze sgangherate del bordello della più infima periferia della città, niente di originale nella sorella perduta, ma innamorata fino all’ossessione di un uomo sposato. E', però, il rapporto tra le due a dare una nota di velata, nostalgica e mancata armonia affettiva all'intero film. E, in ogni caso, la figura della sorellastra uccisa da un killer che si aggira per i bassifondi "disarticolando" giovani donne, incarna un amore profondo e sincero, interrotto traumaticamente dall’assassinio della stessa prostituta. E ancora New Jork: le immondizie, la miseria, la promiscua e insopportabile puzza di locali dove, in bagni fatiscenti, si consuma sesso da poco. Tutto risaputo, già visto, come già visto è lo spirito voyeristico di Frannie, che vuole sapere, che vuole vedere, che si sofferma sul tatuaggio di un uomo che si fa fare sesso nel bagno lurido di un lurido locale da una ragazza con lo smalto celeste. L'insegnate, guarda ciò che non doveva guardare. Da lì, allora, l'equivoco: il tatuaggio raffigurante un due di picche che l'uomo del bagno ha sul polso, è lo stesso del bell'ispettore che segue le indagini sull'uccisione di giovani donne squartate, i cui pezzi si trovano sin dentro la lavatrice di un locale pubblico. L'equivoco, il triller. L'insegnante, colta e intelligente, subisce il fascino del poliziotto, incolto e semplice, ma intelligente anche egli, intuitivo, sensuale. L'erotismo. Altro clichè. La ragazza, si innamora però di quell'erotismo, anche se scopre, sul polso di lui, quel due picche dell'assassino che ha spiato nel bagno. Il detective si rivela sensibile, accorto, rude nei modi, ma forte e premuroso. Altro clichè. Questo ispettore, questo "stallone italiano" ha un collega, che già in passato ha ucciso la moglie e per questo è stato punito dalla corporazione della polizia. Ma non importa, si continua ad uccidere e Frannie inizia davvero a credere che l'assassino sia il bell'uomo che ama. Al punto di cadere nella trappola, al punto di rischiare di diventare l'ultima vittima del killer. Il poliziotto gentiluomo, però, non è un assassino. E' davvero un meraviglio stallone che fatica a comprendere e ad entrare nella complessa personalità della professoressa di cui si è innamorato. Così, si giunge al romantico finale del film. Dopo che la protagonista è riuscita ad uccidere con le proprie mani l'assassino di sua sorella, torna a casa e si accovaccia accanto all'uomo che ama e di cui ha messo in discussione l'onestà e la limpidezza, a rischio della propria stessa vita. Chi è il killer? Facile, facilissimo. Ma non interessa questo. In the cut si va a vederlo per godere della composizione delle inquadrature. Non solo e non tanto quelle del fantasticato e romantico incontro tra i genitori di Frannie: un bel bianco e nero virato seppia. Anche quelle immagini, in fondo, sono talmente belle da risultare un clichè. Si osservino, piuttosto, i passaggi dei personaggi, la presa consapevole e accorta del punto di vista. La Campion sa, in ogni singola inquadratura del film, dove posizionare la macchina da presa, quale angolazione dare ad ogni fotogramma, affinchè esso si animi di colori e di movimenti che risultino casuali e perfetti assieme, nella loro armoniosa disarmonia. Il cinema è finzione. Qui la finzione si mescola al documento, in un triste, putrido affresco. Lo sguardo, il piacere degli occhi sono gli unici motivi davvero validi per vedere questo banale triller metropolitano. Marta Rizzo

VOTO

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