CRITICA a cura di Olga di Comite: Sullo schermo in questi giorni un biopic che rievoca la lunga e complessa vicenda del più famoso direttore americano dell’FBI, John Edgar Hoover, ad opera di un prolifico e anziano leone del cinema d’oltre Atlantico, Clint Eastwood. Mi aspettavo un grande film e invece mi è parso che le scelte sul modo di parlare del personaggio e sul linguaggio usato non siano state felici come in altre opere, leggi Invictus e Gran Torino.
Cupo e solo, Hoover fu senz’altro persona complessa e contraddittoria, per certi versi oscura, con punte di idiosincrasie che ne soffocavano i risvolti umani ed emotivi. Come politico, egli si collocò per il lungo periodo del suo "regno" (attraverso otto presidenti per quasi cinquanta anni di storia americana) in una zona grigia e reazionaria, combattendo contro complotti spesso ingigantiti ad arte, come quello dei comunisti contro l’America, o attribuendosi meriti investigativi (vedi cattura di Dillinger) non propriamente suoi.
Certamente uomo infaticabile nel suo lavoro e non attaccabile, mise invece insieme un archivio in cui registrava debolezze e magagne degli altri, tutti personaggi che poteva ricattare in ogni momento. Svecchiò anche i metodi tecnici del Bureau, introducendo ad esempio lo studio delle impronte digitali. Ma queste innovazioni non intaccarono mai la natura di una persona fragile con addosso un’armatura non scalfibile dai sentimenti, anche se fu in odore di omosessualità.
Ancora oggi si discute del ruolo avuto nella sua vita dal fedele vicedirettore al quale egli lasciò tutti i suoi beni. Se poi la relazione fosse solo platonica o si concretizzasse in qualcosa di diverso, non si sa. E Eastwood ne parla nel film, ma a modo suo, con ritegno e poche concessioni al colore. Proprio in questa natura bifronte tra pubblico e privato, c’è uno dei punti deboli di questa opera. Il regista infatti non sceglie tra l’uomo o il politico, e ne esce una narrazione a tratti confusa, spesso noiosa, condita da banalità freudiane nell’analisi del versante nascosto della personalità di Hoover.
La sceneggiatura, pure affidata a un big come D. Lance Black, risulta spesso inefficace e potrebbe essere tagliata in più parti, visto che la quantità non aggiunge qualità al prodotto. Se è vero che il linguaggio giocato sul ritmo sempre originale del regista, nonché i toni grigi e oscuri degli interni, quasi che Hoover odiasse la luce rispetto al suo “covo” di potente, sono efficaci, tali caratteristiche questa volta non emozionano.
Non parliamo poi dell'espediente di alternare un Edgar che racconta da vecchio a un Edgar che agisce da giovane, effettuato mediante una truccatura dei protagonisti discutibile o addirittura risibile nel caso del supposto amante di Hoover, anche perché le voci dei due risultano molto più giovani rispetto alla presunta età.
Su queste opzioni sbagliate si infrange anche la prova di attore di DiCaprio nel ruolo del protagonista, indubbiamente il migliore. Senza anima invece quella di Naomi Watson nel ruolo della segretaria da sempre fedele e troppo caricata quella di Judi Dench nel ruolo della madre psicanaliticamente ossessiva. Olga di Comite
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