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RECENSIONE FILM L'ODORE DEL SANGUE - L'ODEUR DU SANG

L'ODORE DEL SANGUEANNO: Italia / Francia 2004

GENERE: Drammatico

REGIA: Mario Martone

CAST: Michele Placido, Fanny Ardant, Giovanna Giuliani, Sergio Tramonti, Italo Spinelli, Norman Mozzato, Anita Bartolucci, Luigi De Angelis, Manuela Antonelli, Giuseppe De Marco, Daniele Fior, Giorgio Grandi, Antonia Iaia, Fabio Mascagni, Augusto Mostarda, Alessandro Riceci, Luigi Rigoni, Riccardo Scamarcio, Francesco Scianna, Fabiana Venturi.

DURATA: 100 '

TRAMA: Tratto dall'omonimo romanzo di Goffredo Parise - Carlo (Michele Placido) e Silvia (Fanny Ardant) sono sposati da più di vent'anni. Lui ha una giovane compagna con cui vive, (Giovanna Giuliani), lei abita nella loro casa romana, ai Parioli, dove Carlo passa solo occasionalmente. Tra loro c'è una forte intesa e un profondo affetto, ma quando è Silvia a trovarsi un amante, giovane e violento, la situazione precipita e per Carlo è l'inizio di un'ossessione. In una Roma affannosa e sinistra, una storia di erotismo, decadenza e perversione...

CRITICA a cura di Marta Rizzo: Goffredo Parise, autore tra i più interessanti della letteratura italiana del '900, ha regalato pagine straordinarie ai lettori più accorti, attraverso racconti e romanzi che posseggono, tutti, una non comune linearità, un rigore, una scrittura minima, attenta, impietosa, alle volte brutale. Parise scrive un romanzo vagamente autobiografico, dopo aver subito un infarto, nell'estate del 1979. Quel romanzo viene abbandonato, fino al 1986. Lo riprende nel giugno di quell'anno, ma lo scrittore muore dopo pochissimi mesi. L'Odore del sangue resta un libro incompiuto, ma soprattutto difficile, a quanto pare, principalmente per l'autore. Il romanzo è fin troppo legato ai tempi nei quali si svolge: gli Anni '70, la banalizzazione di movimenti giovanili di estrema destra, una Roma tutta succhiata e lacerata dalla violenza, gli intelletti di quegli anni, le contraddittorietà, la crisi endogena ed esogena di quegli anni. Il libro è tutto troppo concentrato su questi argomenti. Goffredo Parise stesso, consapevole dei limiti oggettivi e soggettivi che caratterizzano il romanzo in questione, afferma che, se avesse potuto, avrebbe intrapreso un personale percorso psicanalitico. Non lo fece mai, perché, sosteneva, l'introspezione avveniva naturalmente, tramite la scrittura. Non è cosa rara, in chi crea oggetti d'arte, riversare nell’opera, attraverso l’opera, dando vita all'opera, intenzioni e pulsioni assai intime, al punto da sfiancare chi le costruisce. Parise ha scritto, dunque, un libro personalissimo, molto diverso dalla sua naturale propensione alla descrizione, minima e minuziosa di fatti e personaggi che, nella sua scrittura, sono seguiti quasi sempre da un autore extradiegetico, che guarda, che non s'intromette nelle loro vite. Egli d'altra parte, è stato anche un viaggiatore, un cronista attento, un reporter tagliente...la Cina, il Giappone, il Vietnam, la Russia, il Biafra, l'America. Ebbene, perché dire tutto questo per anticipare l'analisi del film di Mario Martone? Perché il regista non ha voluto seguire gli anni di Parise, non ha voluto percorrere la strada della trasposizione, non ha banalmente trascinato sulla scena Giosetta Fioroni (la Silvia del film, l'icona Fanny Ardant), grande artista e compagna di Goffredo Parise, non ha parlato dell'incidente che ha portato Parise stesso ad occuparsi di sé, nel romanzo. Martone è entrato, con rara acutezza ed attenta caparbietà, nello spirito di un personaggio e lo ha seguito, quasi vi fosse solamente lui. Michele Placido (Carlo), infatti, non è lo psicologo del romanzo di Parise, ma è uno scrittore, un giornalista, un reporter di guerra, un personaggio nuovo. Carlo è un uomo nella piena sofferenza di un'età fastidiosa, quando non si è né troppo giovani per poter amare con totale leggerezza una giovane addestratrice di cavalli, vitale, intelligente, ribelle e fanciullesca; né tanto vecchi da voler davvero terminare la propria esistenza sentimentale ed erotica con la donna che si è amata per 20 anni, una donna con la quale si è costruito un sentimento attraverso la coazione a ripetere di tradimenti e presunti ragionamenti su un utopistico amore privo del senso di appartenenza. Carlo è un uomo stanco, spigoloso, intelligente, curioso, acuto. L'ossessione che nasce in lui da una gelosia mai provata prima verso la moglie (Fanny Ardant), lo destabilizza, lo infiacchisce, lo costringe a seguire la propria donna tra Roma, la Sicilia e Venezia, per capire se stesso e lei. Per capire cosa sia il tradimento, cosa sia la pulsione erotica, cosa sia e chi sia il giovane violento e sadico che ha invaso il corpo e la mente di una donna raffinata, bella, ironica e triste, tremendamente triste e sola, come Silvia. E' possibile, ci si chiede, riuscire a veder questo film tentando di eliminare la banale ripetizione di dialoghi verticali e ottusi (il senso ottuso di cui parla Roland Barthes, si intende), che si soffermano su un eros spogliato da qualsiasi pudore, da qualsiasi delicatezza, da qualsiasi accordo con il sentimento? L'eros, naturalmente, è l'elemento portante del film. Non si chieda, per cortesia, di indugiare sull'interpretazione del regista del rapporto tra Eros e Thanatos. E’ un'interpretazione quanto mai conosciuta, quanto mai manualistica, freudiana nel senso più stretto e più elementare del termine. D'altra parte, tale antagonismo ancestrale è l'oggetto del romanzo di Parise. Fatta questa premessa, ci si chiede ancora: è possibile riuscire a guardare questo film soffermandosi sull’immagine e dedicando un'attenzione specifica al personaggio di Carlo, che viene vissuto da Michele Placido con la cura, l'attenzione, la ricerca che pochi attori posseggono davvero? La domanda nasce da un innegabile disagio: l'elemento erotico è portato a conseguenze prevedibili e prive di sfumature. Martone pare essersi perso in questo argomento che, per noi che abbiamo visto il film, risulta davvero ingombrante, opprimente e pesante. Il film, invece, ha delle immagini, delle musiche, delle fotografie, dei luoghi talmente belli, nel senso pieno e meno ovvio del termine, da farci dire che, nonostante le facili critiche, esso appare come un'opera realmente complicata, raffinata, colta senza essere invadente, intellettuale senza cadere nell'intellettualismo. Il film si dischiude agli occhi dello spettatore con un prologo fatto di immagini di rara intensità e armonia: l’amore caldo, placido, di un uomo e una donna. Quasi prima delle immagini, la musica: "Amore che vieni, amore che vai" di De Andrè. Un incanto privo di orpelli. Carlo e la giovanissima amante amata (Giovanna Giuliani, brava e adattissima al ruolo), giocano, nuotano, si abbracciano e si fanno toccare da un sole che quasi tocca e riscalda lo spettatore, con una naturalezza tale che l’immedesimazione di chi guarda quelle immagini diviene spontaneamente accogliente, poetica. Il film ha delle sospensioni diegetiche complesse e meravigliose, come quella che segnala il rapporto tra Carlo e Silvia. Allo stesso modo in cui nel prologo si gode di immagini davvero gioiose, che sono la rappresentazione di rare sensazioni di piena felicità, che nella vita reale si assaporano senza quasi rendersene conto, qui si vive e si osserva tutto il dolore, la durezza di un amore sentito, vissuto, consumato, lacerato. La Sicilia, la luce della Sicilia, le rocce grigie, piatte, enormi di Gibellina (il Cretto di Alberto Burri). E, così come il sentimento verso rivela la delicatezza di un amore adolescenziale, nel prosiego narrativo, l’amore tra i due coniugi viene reso distante, doloroso, piatto, lontano eppure inoppugnabile, esattamente come le rocce siciliane. Le sospensioni diegetiche alle quali ci aveva abituato Michelangelo Antonioni, quelle per le quali si è posto un dilemma tra la visione e il visibile, tra il cosa e il come, tra la noia e il piacere; quelle sospensioni sulle quali si è scritto che Antonioni ne abbia fatto una questione di "immagine come problema", problema agente e non inerte al fine dello scorrimento del film, tutto questo viene, in modo personale, rivissuto e riproposto oggi, dopo 40 anni, da Mario Martone. Le due immagini di due amori assai differenti alle quali si è fatto riferimento, riportano lo spettatore a due film di Antonioni: la nitidezza e l'armonia della natura del prologo di Martone, ci sembrano vicine al calore e alla bellezza delle rocce che cantano nella favola che Monica Vitti racconta al figlio in "Deserto Rosso" (1964). Mentre, i blocchi enormi di incomunicabile ossessione nella Sicilia di Carlo e Silvia, riportano la mente ai muri silenziosi e ottusi (vedi sopra) di "La notte" (1960). Martone disegna paesaggi naturalistici caldi e sereni, freddi e nebbiosi; disegna una Roma che a tratti si riconosce e a tratti sfugge; disegna una Sicilia accecante ma non tanto piacevolmente violenta come in realtà è; disegna una Venezia deserta, come non è mai. Per il piacere degli occhi, il cinema è un'arte che sfugge al controllo. Sussume sotto di sé tali e tanti elementi interpretativi che è un vero piacere poter sprofondare nella visione. La visione come problema. Si chiede venia per non parlare abbastanza della storia del film; si chiede venia per non volersi soffermare troppo sull’indescrivibile bellezza ed ironia di Fanny Ardant; si chiede venia per non insistere sul rapporto tra amore e morte; malattia, ossessione, nevrosi, incomunicabilità, sentimenti e quanto altro. Martone non ha seguito Parise: il romanzo è uno spunto, un'ispirazione per dedicarsi al cinema, dopo tanto teatro. A proposito di teatro: nella fissità da kammerspiel dei dialoghi, nella cura riservata ai "costumi", ai movimenti e all'avvenenza, nell'idugiare sul tema sessuale, ci si chiede se Martone non avesse potuto realizzare un'opera teatrale, ispirata al romanzo. La risposta, per quanto ci riguarda, è: fortunatamente non l'ha fatto. Perché tutti i difetti succitati del presunto spettacolo teatrale, nel cinema si dilatano e quasi si riesce a dimenticarli, per quella bellezza, per quella continua ricerca, per quel desiderio di guardare e di ascoltare che rendono questo film assai più complesso di quanto possa apparire. La visione come problema è un problema che Mario Martone conosce, molto bene. Di ciò gliene va reso merito. Marta Rizzo

CRITICA a cura di Gianni Merlin: L'atteso ritorno di Martone alla regia si materializza nella riproposione sul grande schermo del romanzo postumo di Goffredo Parise, L'Odore del Sangue, vicenda che narra le evoluzioni sentimentali e sessuali di una matura coppia borghese negli anni di piombo, laddove il regista napoletano decide di andare sul sicuro affidando le due parti ad attori di prestigio come Michele Placido, qui in una delle sue interpretazioni più fisiche ed efficaci, e Fanny Ardant in una Roma lunatica dei nostri giorni. Sembra che proprio l'affascinante attrice francese sia stata molto colpita dal libro di Parise, da cui il quasi miracoloso incontro con Martone, anche lui attratto fortemente, come dicono le note di produzione, dal corpo del romanzo. Le dimensione fisiche, i corpi per l'appunto, in effetti, da subito diventano gli spazi con cui lo spettatore deve confrontarsi, da subito con la coppia Carlo-Placido e la giovane amante nudi, avvinghiati sulla roccia, nel tentativo pienamente riuscita di confondersi con la bella natura circostante: ben inteso, tale sequenza che dà l'incipit al film, con un De Andrè d'annata come sfondo musicale, è da brividi e dona subito calore a tutto il film, come diverse altre divagazioni naturalistiche che spezzano il ritmo della narrazione, ma che riempiono lo schermo di colori e suoni di pioggia e di acqua sorprendenti. Certo, non si può transigere dal voluto posizionamento dell'intreccio della pellicola verso riflessioni para-intellettualistiche, direzione verso cui Martone anche in passato ha dimostrato di prediligere, ma la narrazione è progressivamente coinvolgente, e con lo scorrere del tempo aumenta veramente la sensazione della percezione del sangue, di una violenza fisica intenzionalmente non mostrata, parallelamente alla profondità del viaggio nella disperazione dei sensi di Silvia-Ardant, amplificato dalla schiettezza del dialogo. In effetti, le discussioni fra i due protagonisti vanno a sviscerare aspetti sessuali direttamente, senza perifrasi o giri di parole, in antitesi con ciò che ci si potrebbe attendere dal contesto scenico: in verità, proprio l'uso spietato, per certi versi delle parole rivela ancor di più il desiderio di perdizione di Silvia da una parte e il gioco di ricerca della verità di Carlo, inizialmente uomo ferito, ma poi quasi co-responsabile e autore della presa di coscienza del destino fatale della propria compagna. Gianni Merlin
VOTO: 7

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