CRITICA a cura di Olga di Comite: Forse non c’è ancora sufficiente distanza storica, forse è oggettivamente difficile fornire in un film un’analisi ampia e sfaccettata, forse proprio l’esigenza di dire con le immagini il più possibile determina spesso sintesi manichee o cadute nella sceneggiatura.
Comunque sia, mi pare di non aver ancora visto un’opera veramente efficace sul periodo che va dal ‘68 al piombo del terrorismo nostrano. Renato De Maria prova a sollevare il velo sulle azioni di “prima linea”, uno dei gruppi terroristici più duri di quegli anni, e lo fa con sufficiente onestà intellettuale, servendosi correttamente di molti materiali d’archivio e di una sceneggiatura in cui gli autori non indulgono a momenti di sotterranea apologia o a eccessi di rabbia ottusa.
Nonostante le polemiche sul finanziamento statale al film (che peraltro il produttore Occhipinti ha rifiutato, dando una bella lezione a mediocri colleghi), l’autore, senza ambizioni eccessive, vuole invitare a riflettere per uscire dal rimosso o, trattandosi di parenti delle vittime, per superare lo shock del passato. Ma come i tedeschi, in questo caso maestri, stanno rivedendo con sofferenza collettiva e individuale tutto il loro passato, anche noi faremmo bene a lasciare da parte il passato cercando di capire e non solo condannare, giacchè non è detto che non si debba usare un po’ di “pietas” per chi abbia rivisto le sue convinzioni ed abbia scontato una pena.
Tornando all’opera di De Maria, vorrei precisare che buona fede ed esperienza non bastano a centrare sempre l’obiettivo. Nella sceneggiatura vi sono momenti poco credibili, vedi strade vuote di Milano al mattino in orario di lavoro o recita della formuletta rituale di “prima linea” mentre si sta giustiziando in pieno giorno e con molti testimoni un “nemico del popolo”. Che dire poi dell’assalto al carcere di Voghera che nelle intenzioni doveva essere senza sangue e che si svolge invece come un assalto alla Al Capone con un eccesso di botti e appostamenti senza che alcuno noti tutto quel movimento non certo pacifico?
In quanto alla recitazione, è corretta ma non esaltante. Migliore la Mezzogiorno nella sua tesa durezza che conosce solo qualche momento di tenerezza; nella parte iniziale, impacciato e monocorde Scamarcio, che poi si scioglie nel secondo tempo, facendo propri e con convincente dolore le parole tratte da libro di Sergio Segio (La miccia corta), da cui il film prende le mosse. Nella narrazione si seguono le vicende e le azioni del gruppo, ma l’obiettivo è focalizzato soprattutto sulla coppia di dirigenti, Segio (Riccardo Scamarcio) e Ronconi (Giovanna Mezzogiorno), compagni di lotta e di vita.
Il racconto è strutturato come un flashback fatto di tre parti in un unico giorno, il 3 gennaio 1982, in cui Segio ripercorre l’inizio e lo svolgersi di tutta la sua vicenda, mentre si prepara con quanto rimane dei compagni di “prima linea” a liberare dal carcere Susanna. Durante il tentativo riuscito perde però la vita un passante pensionato: così anche quest’episodio lascia una scia di sangue. Da questo momento Sergio Segio inizia il suo processo di revisione politica abbandonando la lotta e pagando col carcere l’aver voluto usare “invece della forza della ragione la ragione della forza”. Oggi, pur sotto il peso delle responsabilità del passato da lui pienamente assunte nel libro, dopo venti anni di carcere è un uomo libero che lavora nel volontariato forse per riequilibrare in modo più umano la sua storia. Olga di Comite
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