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RECENSIONE FILM LA RIVINCITA DI NATALE

LA RIVINCITA DI NATALEANNO: Italia 2003

GENERE: Drammatico

REGIA: Pupi Avati

CAST: Diego Abatantuono, Alessandro Haber, Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, George Eastman, Nino Fuscagni, Petra Khruz, Osvaldo Ruggeri, Augusto Zucchi.

DURATA: 99 '

TRAMA: 1986: Cinque individui profanano la sacralità della notte di Natale giocando una ferocissima partita a poker. E' Franco Mattioli (Diego Abatantuono) a uscirne imprevedibilmente spennato. 17 anni dopo lo stesso Franco tenterà di replicare quella notte terribile, per poter attuare finalmente la sua rivincita nei confronti dell'astuto avvocato ed industriale Antonio Santelia (Carlo Delle Piane). Convinto di aver portato dalla propria parte Lele (Alessandro Haber) e Ugo (Gianni Cavina) - due degli infidi compagni del tavolo verde che fu - Franco è ormai convinto di aver incastrato il subdolo truffatore e di poter finalmente riscuotere la sua Rivincita di Natale...

CRITICA a cura di Marta Rizzo: LA RIVINCITA DI AVATI - Pupi Avati, piccolo lume del difficile cinema italiano contemporaneo, ha confezionato un nuovo regalo. Lo ha confezionato davvero: tutto con le sue mani e con quelle del fratello e degli amici più cari. Se si andrà a vedere questo film per la storia, si consiglia di non uscire di casa, di non cercare posto per la macchina, di non fare la fila per il biglietto. Poca storia, infatti, che, in ogni caso assume una propria dignità nel rovesciamento finale: un accadimento sull'accadimento, un doppio salto mortale nell'arte del racconto. Il tutto, naturalmente, va ridimensionato e ricondotto ad un debole traliccio narrativo, e dunque i colpi di scena sono deboli colpi di scena, ma intelligenti, pieni di sapienza non sfacciata, misurati, fatti di un'ironia sottile e arguta. Tutto quello che, insomma, manca al cinema italiano dei nostri tempi, fatto di registi che vogliono disperatamente raccontare grandi storie: intere crisi generazionali, viste da registi borghesi in storie borghesi; crisi familiari, viste da registi borghesi in famiglie borghesi; crisi di identità e di personalità, viste da registi borghesi con occhi borghesi. Non si fraintenda: la borghesia, da ben oltre un secolo, è la classe dominante della nostra civiltà. Non si vuole, dunque, usare in modo dispregiativo tale termine: sarebbe stupido e obsoleto. No, la borghesia del cinema italiano la si intende come un modo piccolo, provinciale, spesso ipocrita e presuntuoso di fare cinema. Ecco perché si usa la parola borghese: perché è un modo sintetico di dire cose diverse eppure non in contrasto. E si parla di borghesia anche e soprattutto in questo film: sì, perchè tutto è piccolo borghese in tutto il cinema di Pupi Avati, in questo film come negli altri. Che si tratti dello scaltro proprietario di numerose sale cinematografiche del riccastro nord italiano Diego Abatantuono; che si guardi ai due morti di fame, meschini, stupidotti, furbastri da strapazzo e vagamente delinquenti, Alessandro Haber e Gianni Cavina; che si guardi al piccolo, tristanzuolo, intelligente idustrialotto di giocattoli in un'improbabile Calabria moderna (Carlo Delle Piane), insomma, che si guardino in modo giustamente differente tutti i protagonisti straordinari di questo piccolo film, in ciascuno di essi si troveranno elementi di quella borghesia italiana un po' truffaldina, ingenua e furbetta, che si fa sempre cogliere allo scoperto, o che nasconde talmente bene da insabbiare anche se stessa. Pupi Avati ci parla di questa realtà senza parlarne. Questo film italiano, finalmente, non ha morale, non ha un messaggio, non vuole insegnare, né far comprendere nulla. E' una storiella ripresa da un film di 17 anni fa: i protagonisti sono gli stessi, non sono cambiati di una virgola. Qualcuno è solamente diventato più ricco, ma nessuno ha cambiato prospettiva di vita. Questo, già, è un dato sottilmente e fuggevolmente agghiacciante. 15 anni non sono pochi: la vita insegna delle cose e alle cose si reagisce via via in modo differente, sino al punto di creare alcuni piccoli cambiamenti in ciascuno di noi. O forse è soltanto un'illusione: la vita non insegna nulla; non si cambia neanche davanti alla malattia, o ad una possibile morte. Anzi, esattamente su questa unica vera tragedia umana si costruisce la truffa del film. E' questa la verità che Pupi Avati, finalmente, non dice. I 5 giocatori di poker sono, dunque, identici a loro stessi. Vengono fregati, si fanno fregare e fregano nello stesso modo di sempre. Assomigliano a quei personaggi dei film americani degli Anni '30-'40. Un pò Humphrey Bogart un pò Peter Lorre: un pò seduttivi e affascinanti, un pò vittime e maschere deformate della realtà. Ed è questo aspetto a rendere ancora più interessante il film: la grande provincia americana Anni '30, fumosa, piena di whisky, povertà, perdizione e fascino, fatta di un bianco e nero quasi grigio, viene guardata, ricordata e appena accennata qui; riportata nella piccola Italia, dove ci si posta tra Bologna e Lamezia Terme; dove il gioco, e il doppio gioco diventano alla portata di chiunque. Dopo la bella storia della ragazza cieca, Pupi Avati firma un altro capolavoro in miniatura, se lo si sa guardare con occhi attenti e divertiti. Un'ultima notazione: i giornali riportano la dicitura: "commedia" per definire questo film. E' noto che il termine "genere" è, di per sé, generico (si perdoni il gioco di parole), ma in questo caso non crediamo davvero che si possa parlare di commedia. La rivincita di natale è forse più un "noir", con delle sfumature talmente ampie da non poter essere classificato. Oltre a non avere una morale, questo film non ha neanche uno schema definibile. Questo è il vero regalo che ci fa Pupi Avati. Marta Rizzo - marta.michela@tiscalinet.it

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