CRITICA a cura di Olga di Comite: Si comincia dal titolo che mi piace molto almeno per due motivi: centra l’argomento principale, suggerisce tanti riferimenti culturali. C’è la fiducia tradita, la corruzione in agguato, il conflitto generazionale, la riflessione sulla storia che riguardo al potere si colora nel tempo di sangue vero o simbolico, c’è Shakespeare con tutto il potere evocativo del suo Giulio Cesare.
Buona idea quindi quella del regista di accantonare la titolatura originale, legata alla pièce teatrale da cui il film prende le mosse. Ma a parte ciò Clooney attribuisce alla matrice teatrale grande importanza se ad affiancarlo nella stesura del testo, ne ha scelto l’autore Beau Willimon.
La sceneggiatura è un elemento forte del racconto, tesa e senza cadute di interesse, classica così come lo è il modo di dirigere dell’autore, che nella sua quarta opera mantiene l’assunto e il linguaggio degli altri film impegnati, ammodernandolo un po’ rispetto al primo Good Night, and Good Luck. L’obiettivo di Clooney è mostrarci i volti dell’America di oggi, con un saldo ancoraggio nel passato glorioso di un cinema pragmatico come quello americano e perciò fatto di cose, non senza ideali sullo sfondo. Certamente Le Idi di marzo è la declinazione più amara del suo discorso, non ideologico ma attento a valori universali; nella narrazione non è difficile cogliere anche la delusione verso l’era di Obama così come l’ha vissuta il nostro regista e credo molti americani.
Ma proprio nel continuare con film di denuncia Clooney mostra ancora attaccamento a un grado di idealismo più basso ma non del tutto domato. Per il resto nella storia che vede impegnati due candidati democratici nelle primarie per le elezioni presidenziali, niente di nuovo che non sia merce ordinaria con piccole variazioni di costumi e abitudini, ovunque si collochi la lotta per il potere. Si tratti oggi di potere finanziario o di potere politico la musica non cambia. Compromessi che arrivano al fondo dell’anima, caduta di riferimenti umanitari, menzogna mascherata da parole alte, vittime sacrificali nel senso più crudo o metaforico del termine, cinismo diffuso a piccole o grandi dosi.
A parlarci di tutto ciò il regista chiama un bel gruppo di star. Prima di tutti se stesso, ormai cinquantenne, con qualche caduta e ruga in più sul viso ma comunque convincente e brillante; lo affianca un giovane antagonista (Ryan Gosling) nel ruolo del suo addetto stampa, intenso e vero soprattutto nei primi piani centrati sullo sguardo che si fa sempre più opaco e smorto. Tra gli altri la giovane stagista, ingenua ma non troppo (Evan Rachel Wood), sostenuta da un ottimo phisique du rôle, coi collaterali ma provetti interpreti P. Seymour Hoffman e Paul Giamatti.
Ryan Gosling è certo più che una promessa, ma tutti gli attori citati sono ottimi, efficace anche la fotografia sobria, elegante il commento musicale, elementi che contribuiscono tutti ad animare quel teatro della politica solo in apparenza meno cruento delle Idi di marzo di classica memoria, ambientato in una Detroit giustamente grigia. Olga di Comite
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