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RECENSIONE FILM LEMONY SNICKET UNA SERIE DI SFORTUNATI EVENTI LEMONY SNICKET'S A SERIES OF UNFORTUNATE EVENTS

LEMONY SNICKET'S A SERIES OF UNFORTUNATE EVENTSANNO: U.S.A. 2004

GENERE: Fantastico

REGIA: Brad Silberling

CAST: Jim Carrey, Meryl Streep, Emily Browning, Liam Aiken, Kara Hoffman, Shelby Hoffman, Dustin Hoffman, Jude Law, Luis Guzman, Billy Connolly, Cedric the Entertainer, Jennifer Coolidge, Timothy Spall, Craig Ferguson, Jane Adams, Jamie Harris, Catherine O'Hara.

DURATA: 113 '

TRAMA: Quando i tre fratelli Baudelaire, Violet (Emily Browning), Klaus (Liam Aiken) e Sunny (Kara Hoffman, Shelby Hoffman) rimangono orfani dopo l'incendio della loro casa, si trovano a dover girovagare fra amici di famiglia e lontani parenti, affidati ad una serie di abominevoli tutori decisi a mettere le mani sulla loro eredità. I genitori hanno infatti lasciato loro una grande fortuna ma non potranno disporne finché Violet, la più grande, non sarà maggiorenne. Così i ragazzi vagano tra la casa della zia Josephine (Meryl Streep) e il castello del malvagio Conte Olaf (Jim Carrey) che, come scopriranno ben presto, non vuol far altro che portar loro via l'eredità...

CRITICA a cura di Sara Panetta: << Se vi aspettate di vedere un film su un simpatico elfo, cambiate sala, canale o cassetta, perché questa storia parla di incendi, orfani, cucina italiana e sanguisughe carnivore >>. Questo, a grandi linee, è l’incipit del film. Con poche, incisive parole vengono sintetizzate due ore di pellicola (dalla quale spicca l’eccezionale interpretazione di Jim Carrey, semplicemente perfetto nella parte dell’eccentrico e malvagio persecutore dei bambini). L’aspetto, a mio avviso più importante, esplicitato da questo inizio, è che ci ricorda, in modo insindacabile e sin da subito, che è solo un film, che quello che ci racconta è frutto di una scelta e che avrebbe potuto essere benissimo qualcosa di diverso. Ma procediamo con ordine... Le prime immagini, mentre scorrono i titoli di testa, sembrano parte di un cortometraggio d’animazione, ambientato in un boschetto vivace il cui protagonista è un ridente elfo. Questo simpatico quadretto viene poi sostituito dalle scure, desolate immagini del vero racconto i cui protagonisti saranno gli sfortunati, ma con eccezionali doti, fratelli Baudelaire. In questo passaggio a fare da traghettatore è la voice over del narratore, per il momento ancora assolutamente extradiegetico, poi incarnato da uno scrittore (Lemony Snicket) che rimarrà tuttavia una semplice silhouette nera in una strana stanza. Le sue parole non sono per nulla rassicuranti, anzi. Ci informa sui contenuti della storia che stiamo per vedere avvisandoci che siamo ancora in tempo per cambiare idea. E la domanda nasce spontanea: perché iniziare in questo modo? Le risposte sono molteplici ma quelle più convincenti sono probabilmente due. Innanzitutto, è un modo per sfidare lo spettatore, mettendolo nella condizione di superare quell’embrionale processo narrativizzante, per il quale si tende a dare senso e ad immaginarsi una storia nel momento stesso in cui si è di fronte ad una sequenza di immagini in movimento. Questa interpretazione è supportata da una frase-chiave che costantemente ritorna in tutto il film. Ogni volta che per i tre giovani protagonisti la situazione sembra volgere per il meglio, la voice over, dopo aver lasciato credere che da allora in poi tutto sarebbe stato più facile, ci informa che sebbene anche a lui sarebbe piaciuto finisse in questo modo, la realtà è stata diversa e lui DEVE dirci la verità. Così, ancora una volta, abbandoniamo il rassicurante sentiero sul quale avevamo iniziato ad avviarci, per ritornare indietro, in attesa del prossimo “sfortunato evento”. Il fine di questo tipo di scrittura (esplicitato dal fatto che chi narra è uno scrittore che sta battendo a macchina la storia) è quello di rendere consapevole lo spettatore di non essere lui la fonte dalla quale nasce la storia, lo spettatore ne è estraneo, è solo il suo ultimo destinatario, nulla di più. Chi muove i fili non è chi guarda e questo ci viene ricordato, quasi ai limiti del sopportabile, in più di un’occasione, frustrando ripetutamente la proiezione nel mondo costruito. Un esempio? Nel momento in cui la “vipera incredibilmente velenosa” irrompe nella scena e sta per attaccare la bambina più piccola (e qui ammetto di aver fatto un “piccolo” balzo dalla sedia), l’immagine ritorna sulla silhouette dello scrittore-narratore, provocando da una parte il prolungamento della tensione patemica, ma dall’altra la fastidiosa, violenta e impotente uscita dalla storia principale. Il film lascia molte domande in sospeso, che probabilmente verranno risolte in un secondo momento nel sequel, tuttavia il senso di frustrazione, anche a fine proiezione, è notevole. Tali quesiti però non riguardano tanto le vicende narrate, bensì la fonte da cui queste ci vengono narrate e sulla quale il testo filmico non dice nulla. Non si può non chiedersi: ma chi è lo scrittore-narratore? Come faceva a sapere le vicende dei Baudelaire? E infine, perché anche lui possiede il cannocchiale (simbolo dell’appartenenza al gruppo di ricercatori-amici di cui i genitori dei protagonisti erano a capo)? Il secondo elemento che emerge dall’incipit iniziale (ricordiamo: boschetto felice dell’elfo vs inquietante mondo reale dei bambini) è l’esplicita dichiarazione dello status ontologico del film, ovvero dell’essere un classico racconto per bambini mascherato da anti-fiaba. Infatti, nonostante affermi di non essere quel genere di racconti con elfi vivaci ed una storia a lieto fine, in realtà è proprio quello che succede. Due emblematici fattori sono: 1_ la statuetta dell’elfo, che tornerà simbolicamente all’interno della storia permettendo ai bambini di salvarsi da morte certa - anche se per farlo dovranno staccargli la testa! (infanzia come unico strumento per salvarsi dal mondo adulto o morte dell’infanzia?) - 2_ la vittoria finale dei bambini che riusciranno ad allontanare il nemico (lo zio, il conte Olaf), a risolvere le inquietanti risposte sul passato dei loro defunti genitori e infine a trovare una famiglia, scoprendo che non è un luogo bensì un rapporto tra persone: i tre fratelli, appunto. L’apparente intenzione del film è quella di non soddisfare il semplicistico piacere per un mondo armonioso e felice, bensì mostrare la brutalità della vita, partendo dal più grande trauma per un bambino: la morte dei genitori, e passando attraverso la solitudine e il tradimento delle persone più care. Da questo quadro finale però gli adulti ne escono assolutamente sconfitti. Incapaci di ascoltare i ragazzi, sono dipinti come gli unici colpevoli del loro dolore. Questa crudeltà, sia dell’ambientazione che dei personaggi, è tuttavia solo il tramite attraverso il quale trasmettere la morale conclusiva, ovvero che anche dietro ad una “serie di sfortunati eventi” si può riscoprire la bellezza della vita. Se questa non è una fiaba... Sara Panetta
VOTO:

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