ANNO: U.S.A. 2006
GENERE: Drammatico
REGIA: Clint Eastwood
CAST: Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara, Ryo Kase, Shido Nakamura, Hiroshi Watanabe, Takumi Bando, Yuki Matsuzaki, Takashi Yamaguchi, Eijiro Ozaki, Nae, Nobumasa Sakagami, Akiko Shima, Lucas Elliott.
DURATA: 142 '
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TRAMA: Durante la seconda guerra mondiale sulla piccola isola di Iwo Jima, tra la spiaggia di sabbia nera e le cave di zolfo, si consuma lo scontro tra i soldati americani e quelli giapponesi. Questi ultimi, mandati allo sbaraglio, sono consapevoli di non tornare più a casa. Tra loro Saigo (Kazunari Ninomiya), un ex fornaio, desidera sopravvivere per tornare a casa e vedere la sua ultima nata. Baron Nishi (Tsuyoshi Ihara), campione olimpico di equitazione, è famoso in tutto il mondo per la sua abilità. Shimuzu (Ryo Kase), un allievo poliziotto, idealista e fiducioso, è destinato a scontrarsi con la dura e crudele realtà della guerra. Il tenente Ito (Shido Nakamura), credendo profondamente nella sua missione di soldato, preferisce uccidersi piuttosto che cadere nelle mani dell'esercito americano. L'esercito e la difesa sono affidati al generale Tadamichi Kuribayashi (Ken Watanabe), uomo di grande cultura, ha studiato in Canada e, essendo stato a lungo anche negli Stati Uniti, sa perfettamente di combattere una guerra senza speranza: 20.000 soldati giapponesi rimangono sul campo, di loro non restano solo i cadaveri e il sangue che ha bagnato le rocce, ma anche le lettere mandate a casa, piene di paura ma anche di coraggio e eroismo...
CRITICA a cura di Olga di Comite: Ancora un film di guerra e sulla guerra, ancora protagonisti soldati americani e giapponesi, ma quanta strada si è fatta da quei filmacci propagandistici degli anni bellici, che ci mostravano da una parte gli eroici generosi marines e dall’altra i feroci e disumani musi gialli. C’è stata da allora una cospicua produzione di narrativa e di film sull’argomento, che non ha mai smesso di esercitare sullo spettatore quella carica di coinvolgimento e di drammaticità che gli è propria. Su questa via si muove, e con successo, Clint Eeastwood, il lontano pistolero dei western-spaghetti degli anni ’60, che, passato alla regia, continua ad ogni opera a stupire e a suscitare consensi.
La vicenda si svolge a Iwo Jima, uno sperduto isolotto tutto rocce nel Pacifico orientale, che per gli americani, ormai in vista del successo definitivo, costituisce la base di partenza per l’ultimo attacco alle coste giapponesi; per questi, dopo che hanno ormai perduto flotta ed aviazione, è l’ostacolo estremo da opporre non per un ribaltamento delle sorti del conflitto ormai perduto, ma solo per ritardare di qualche giorno o settimana la resa definitiva. La battaglia ebbe inizio il 19 febbraio 1945 e si protrasse non per i cinque o sei giorni previsti dagli americani ma per ben 36 giorni.
Si fronteggiarono 100.000 marines contro 22.000 nipponici. I primi ebbero 6821 morti, dei secondi sopravvissero solo in 1083. I difensori si dispersero strategicamente in miglia e miglia di gallerie. Resistettero fino a che durarono acqua e cibo, fino al suicidio collettivo.
Sull’episodio Eastwood ci aveva già dato "Flags of Our Fathers". Se in quel film il regista raccontava la sanguinosa conquista dell’isola da parte delle truppe americane, in Letters from Iwo Jima l’attenzione si sposta sul versante dei difensori. Insomma si tratta della stessa storia, stesso sfondo, stessa sceneggiatura, ma il tutto visto dall’altra parte. Nel film, con 142 minuti di racconto mozzafiato, egli ci introduce nel mondo insensato e disumano della guerra tout court, presentata con crudo realismo come strumento di risoluzione di contrasti internazionali, alla ricerca dell’annientamento totale del nemico. L’attenzione dell’autore si concentra da una parte sul dogmatismo ideologico dei governi che vedono nel conflitto armato l’unica possibilità di affermare la loro smania di potere, dall’altra sulla follia di comandanti militari, dal più alto grado al semplice graduato, che nella loro esaltazione non tengono in alcun conto la vita e il destino dei sottoposti.
Tramite le lettere scritte dai soldati giapponesi, mai spedite e ritrovate di recente in vecchie trincee e gallerie abbandonate, Eastwood ricostruisce il quadro di quella umanità condannata a morire o per mano delle bombe americane o per mano del suicidio d’onore imposto non solo dai vertici del comando ma anche da quei graduati che in quanto a fanatismo non si lasciano battere da nessuno. Il pregio del film è proprio in questa alternativa che si intuisce fin dalle prime inquadrature e tiene lo spettatore col fiato sospeso fino alla fine. Lo sguardo del regista sa mantenersi freddo e distante, coerente con quel rigido clima di esasperato militarismo che sottolinea ogni scena.
Disturbano se mai quei pochi flash-back che ci mostrano momenti di umanità presenti in alcuni dei protagonisti; li si avverte come estranei a quel mondo in cui nulla ha una giustificazione se non il prevalere della logica assurda e mortale della guerra. I pochi segnali di critica e di disaffezione che si levano su questo sfondo vengono subito spenti e repressi con feroce brutalità.
Fa eccezione il celebre comandante Tadamichi Kuribayashi, (Ken Watanabe, "L'ultimo samurai"), vissuto a lungo negli States, che sente il dramma della situazione, l’assurdità del comando, la strage inutile di tanti giovani, ma si sente costretto a recitare nel ruolo fino in fondo. Infine, senza atteggiamenti retorici e senza cedimenti predicatori si dà la morte: dignitosa coerenza o paura della verità e della insubordinazione? Accanto a lui, si distingue un altro personaggio influenzato da modelli di vita americana, il romantico Barone Nishi (Tsuyoshi Ihara), cavallerizzo celebre a Los Angeles, uomo di mondo consapevole della inutilità di quella assurda resistenza.
Un personaggio del tutto al di fuori di ogni logica bellica, è il giovane ingenuo fornaio (la popstar Kazunari Ninomiya), costretto ad arruolarsi nonostante i suoi ideali di vita non siano mai andati oltre il lavoro e la famiglia da crescere. Il suo modo semplice e reale di valutare quanto gli succede tutt’intorno e l’innato istinto di conservazione lo porteranno alla sopravvivenza.
Non mancano altri personaggi vivi e veri, spesso contraddittori, incerti tra il sacrifico estremo e il salvarsi la pelle: c’è chi si limita a mugugnare sottovoce, chi prova a disertare e viene subito ucciso, chi affronta il fuoco nemico o il suicidio.
Eastwood mostra ancora le sue doti di grande regista nell’adozione di geniali artifici, quali l’uso di un bianco e nero che si accende solo del rosso delle esplosioni o del sangue o il parlato originale sottotitolato. L’ex-pistolero continua dunque a produrre film che non deludono, di grande impatto emotivo, di grande valenza artistica, di profondo stimolo alla riflessione e alla libertà di critica e di giudizio, ovunque estensibili. Olga di Comite
VOTO:
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