CRITICA a cura di Olga di Comite: Qualcuno, mimando il penultimo titolo del regista turco, ha parlato di “anime vaganti” e proprio di questo si tratta, perché i fantasmi che prima atterriscono il buon Pietro e poi ne diventano in qualche modo la atipica famiglia (non solo allargata ma addirittura impalpabile) sono spiriti inquieti.
Essi ricercano, come nella tradizione lettararia e cinematografica, una loro serenità per abitare definitivamente l’oltretomba. Ma i nostri sono anche personaggi in cerca d’autore nel quale rispecchiarsi per esistere.
Da questo punto di vista Pietro, il protagonista assoluto che compare in quasi tutte le scene, è l’ideale. Venuto dal Sud a Roma, egli è un giovane puro, sensibile e un tantino troppo ingenuo. Coscienziosissimo nel suo lavoro notturno di confezionatore di cornetti, aspira in realtà a fare l’attore ed è disposto a recitare anche in uno spot, pur di iniziare a coltivare il suo sogno. Dunque un aspirante al teatro incontra come “magnifica presenza” in casa sua, un appartamento vecchiotto di Monteverde, una ex-compagnia di teatranti anni ’30, fantasmi che si muovono con sofisticata gestualità, modulando la voce, riempiendo i vuoti materiali e affettivi che caratterizzano la vita del loro ospite.
Nella prima parte del film, ovviamente, la situazione richiama l’opera di De Filippo e il genere ghost story all’ americana, nella seconda le citazioni (Eva contro Eva, The Others, Pirandello, Fellini, Tarantino, Gomorra) si sprecano anche se il regista le introduce discretamente, non in modo ingombrante, come è tipico dell’artificiosa naturalezza di Ozpetek.
Alla fine, pacificati perché si svela l’enigma della loro scomparsa dalle scene, dopo una simbolica passeggiata in autobus nella Roma di oggi, paghi di aver anche saggiato un pezzetto di futuro, i fantasmi si ritireranno per sempre nel loro oblio. Pietro a questo punto, maturato anche lui, è pronto per una vita “normale”, qualunque sia la sua scelta sessuale e la sua fortuna-sfortuna di aspirante attore.
Nel film i temi del regista turco, che io amo perché mi sembra quasi di conoscerlo e perché ha un back-ground affettivo ed emotivo che in parte condivido, ci sono tutti: la solitudine, l’amicizia come balsamo per superarla, la condivisione col gruppo, l’amore per le cose e i luoghi, le sfumature gialle e i fatti storici di un passato recente, l’attenzione e il ricordo della patria d’origine, ecc. ecc. In più quest’opera ha una sua fascinosa particolarità: saranno i toni sommessi, sarà lo sguardo da bimbo stupito di Elio Germano, sarà il lieve incedere dei fantasmi in quella terra di mezzo che non possono abbandonare, sarà la delicatezza umanissima come quella sull’autobus nella Roma notturna.
Alla fine del racconto il malessere di Pietro che vede strane realtà non lo si collega più a una forma di nevrotico disagio ma al bisogno, sempre ribadito, di riferimenti affettivi per superare impasse pesanti e trovare la propria identità. A questo si aggiunge uno sguardo divertito che glissa sulla tentazione di disperare. Tra gli interpreti, a parte Germano, un po’ rigido e monocorde come interiorità, anche se mobilissimo nel viso, citerei un folgorante intervento duro e realistico, nonché centrale per il senso del racconto, affidato ad Anna Proclemer.
Aggiungerei infine che non mancano in quest’opera alcune debolezze: i personaggi fantasmatici sono pesso macchiette disegnate dai gesti e dal trucco piuttosto che caratteri veri, Pietro in alcune sequenze è presentato come un essere fin troppo inadeguato rispetto alla realtà visto che non sa neanche mettere a fuoco le sue propensioni sessuali, la scena della Badessa che sfrutta un gruppo di trans-donne nel sotterraneo è perlomeno forzata e poco significativa.
Però, non si sa come e perché, esci dalla sala con la sensazione di aver visto un’opera bella come la persona che te l’ha presentata. Del resto un po’ di faziosità positiva talvolta è necessaria perciò me ne scuso col mio piccolissimo gruppo di lettori. Olga di Comite
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