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RECENSIONE FILM PINA 3D PINA

PINA 3DCRITICA a cura di Olga di Comite: Non ho visto la versione in 3D, tecnica osannata in primis dalle stesso regista e poi da chi ne ha gustato l’effetto prodotto sullo spettatore dal sentirsi quasi insieme ai danzatori sulla pedana, cogliendo tutti i dettagli della coreografia. Ma, nonostante ciò, sono molto contenta di aver visto e sentito lo spettacolo, immedesimandomi col pensiero nello sguardo profondo, ora triste ora luminoso, della Bausch e a quanto di lei e della sua opera l’autore ha fatto rivivere.

Nel contempo ho “ritrovato” il regista tedesco e la sua capacità di cogliere per immagini luoghi ed eventi particolari, offuscati nell’ultimo periodo un po’ pigro e vuoto di creatività. Qui c’è il miglior Wenders (Paris, Texas, Lisbon story, Il Cielo sopra Berlino) potenziato in espressività ed eleganza dal legame di amicizia o meglio di vera e propria corrispondenza che lo legava da circa un ventennio alla Pina B. Quest’ultima negli Anni ’70, parallelamente all'amico regista, rivoluzionò la danza, trasformandola in azione teatrale recitata e ballata, sfruttando tutte le possibilità espressive del corpo in un connubio originale di vari linguaggi, tanto da far parlare di lei come di una “creatrice d’arte”.

Il film con lei e su di lei ha una incubazione lunghissima perché Wenders non si sentiva in grado di scendere nel profondo del lavoro dell’artista e perché alle prime prove realizzate mancavano il cuore e lo guardo della danzatrice, alla quale infatti non piacquero. Poi per caso nel 2009 il regista incontra il 3D, cioè il mezzo tecnico che gli permetteva di dare la giusta efficacia al suo documentario, esaltando la forza emozionale delle creazioni dell’amica. Ma quando mancavano solo due giorni alle prime registrazioni in 3D, la danzatrice-maestra viene improvvisamente a mancare.

Sono poi stati i ballerini che formavano il suo corpo di ballo Tanztheater Wuppertal a non desistere da quello che sarebbe diventato un film con la Bausch, perché il suo spirito aleggiava ancora tra allievi e sodali, ma anche per la Bausch, rendendo omaggio alla sua memoria.

L’opera è fatta di poche parole, come sarebbe piaciuto a Pina, che sono le frasi brevi dei suoi ballerini intervistati. Ci sono poi spezzoni di repertorio, ricordi, movimenti di danza, ambientati in angoli urbani di Wuppertal o nelle vicinanze en plein air. Nucleo centrale dell’opera sono però quattro coreografie tra le più famose dell’autrice: Cafè Muller, Le sacre du printemps, Vollmond, Kontakthof. A mio parere le più emozionanti sono le ultime due, sebbene una graduatoria sia difficile da effettuare. La unicità dello sguardo della Bausch si fonda del resto su una preparazione multidisciplinare che le ha consentito il recupero di altre arti immesse nella sua con padronanza e scrupolo assoluto dei particolari minimi.

Memorie artistiche di Caravaggio, di Dalì, di Magritte, insieme a memorie storiche della sua Germania, percorrono l’insieme della sua opera, accanto alla ricerca inesausta sugli elementi vitali del mondo (terra, acqua, rocce) e sulle capacità del corpo di esprimere sentimenti con ogni piccola parte di esso, a partire dai capelli delle danzatrici con vibrazioni a volte sottilissime. Solo un amico e i componenti della sua “famiglia” artistica potevano renderle questo forte e delicato omaggio senza lacrime, tutto da godere. Olga di Comite
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