ANNO:
Italia 2002
GENERE:
Commedia
REGIA:
Gabriele Muccino
CAST:
Laura Morante, Fabrizio Bentivoglio, Monica
Bellucci, Silvio
Muccino, Nicoletta Romanoff, Enrico Silvestrin.
DURATA:
120 '
TRAMA: Carlo (Fabrizio Bentivoglio) e Giulia (Laura Morante) hanno
abbandonato le strade dei loro sogni per dedicarsi
ad una serena vita familiare da condurre insieme con
i figli Valentina (Nicoletta Romanoff) e Paolo (Silvio
Muccino), divenuti ormai adolescenti. I tempi sono
cambiati e, con essi, anche i sogni della nuova generazione.
La perseveranza e l'estrema determinazione di Valentina nel voler diventare una soubrette finisce per sgretolare
l'apparente integrità familiare dalla quale
riemergono desideri ed egoismi troppo a lungo mortificati
e repressi...
CRITICA a
cura di Chiara F.:
Ci si sforza, invano,
di sfuggire ai pregiudizi dell'ultima ora, o meglio
degli ultimi due anni, che investono la cinematografia
di Gabriele Muccino. Invano perchè è evidente
il calcolo, in questa seconda prova effettiva ("Ecco
Fatto" e "Come te nessuno mai" sono considerati a parte,
in un idilliaco-illusorio underground personale) del
regista
romano. Furbissimo, perchè si avvale della bellezza
sfavillante di luoghi e volti e perfette movenze da
attori navigati, soprattutto nella classicità dei
due pezzi forti del film, gli annunciati Fabrizio
Bentivoglio e Laura
Morante. Troppi hanno parlato del ritmo, della
composizione perfetta delle inquadrature, a volte denigrando
l'urlato
generale di questo film che supera in tutti sensi i
suoi epigoni. E' un condensato dei dialoghi da barzelletta-soap
opera di "Come te nessuno mai", interessante per l'energia
che sprigionava e quel tentativo abbozzato di confronto
tra adulti e non adulti, della trama eterna dell'amore
oppressivo e disamorato de "L'ultimo bacio", con le
furiose litigate tra i due e la candida, ebete, insopportabile
faccia tosta dell'uomo-bambino gigionesco, fintamente
ribelle, fintamente profondo ed eternamente patetico.
Dispiace vedere Bentivoglio calato
in questo ruolo sfatto, tristissimo, lacunoso nell'intensità e
nelle battute, il ruolo di un uomo che ritrova il vecchio
amore che non sa d'amore, ma più che altro di
pulsione post-adolescenziale idealizzata di una donna
un po' meno vissuta, mista ad una morbosa e convenzionale
attrazione. Contraltare, il personaggio di sua moglie,
che nel crollo delle aspettative e delle speranze si
dedica ad un'arte, ma con le consuete aspettative da
quasi cinquantenne delusa, troppo impacciata, nervosa,
piangente e annichilita per essere vera. La voce stentorea
e
incrinata del personaggio di Giulia si
perde nell'apologia marcita del "nido" perduto,
nell'ostinato vittimismo che è sì comune
a troppe sue coetanee, ma assolutamente inverosimile
perchè manca
di un basamento profondo, della dignità necessaria,
della forza che è propria della maturità.
In fondo i due coniugi non sono altro che una vile
caricatura dell'uomo medio, ammesso che esista, così meschini,
stereotipati. Dov'è la loro interiorità?
Tutto è troppo
veloce, perentorio, ostinato e ottuso perchè i
veri pensieri dei protagonisti fuoriescano, tant'è che
viene il dubbio che questi non pensino affatto, come
non pensa certamente l'odiosa figlia, vincente in fondo,
ma perchè? Perchè non viene a tutti un
po' da ridere allo snocciolarsi rapido, irreale delle
tappe
della sua assurda carriera? Troppo facile, sciocco,
superficiale pensare che la prostituzione istituzionalizzata
delle idee sia l'unica strada, e soprattutto far credere
che basti un certo atteggiamento, ovvero la lobotomizzazione
vera o presunta che la ragazza si autoinfligge. La
storia di Paolo, quarto universo a sè stante
e non comunicante con gli altri, è ancora più dispettosamente
banale e classista :il ragazzo alto borghese "sfigato" e
infatuato sempre di chi non può avere, che tenta
rovinosamente di amalgamarsi al gruppo di rasta modaioli.
Muccino, raccontando con il fastidioso voice-over,
vuole pretendere di parlarci un po' di noi ma in realtà non
ci parla altro che di sè stesso, indispettendo
per la sua scelta oculata di rapire le masse con una
finta elìte
che stordisce gli altri e se stessa beatamente
negli ampi saloni e nella città avvolgente e
defraudata, rinunciando a uno sguardo dal di fuori,
a una coscenza anche cinica e passiva che costringa
i suoi folli bambolotti a recuperare il ricordo della
ragione. Nessuno dei personaggi, degli ambienti narrati
rivelano, nella perfetta concatenazione degli eventi,
l'esistenza di un passato, di un'autentica esigenza
di contatto con l'altro, di liberazione. Invece di
descrivere gente che soffre per essere stata privata
dei propri
desideri si mira a coccolare, "ricordare",
rilevare la stolta sottigliezza di persone che sembrano
già nate
in un'era in cui avere un'ambizione personale, un'intima
aspirazione non è più naturale. Il regista
crea per queste persone un'ottima pellicola-alibi,
in cui sacrifica volutamente la sua intelligenza, che
spaccia le ingenuità più aberranti per
scelte consapevoli di abbandonarsi ad un abisso. Chiara
F.
VOTO: |