ANNO:
U.S.A. 2002
GENERE:
Horror
REGIA:
Gore Verbinski
CAST:
Naomi Watts, Martin Henderson,
David Dorfman, Brian Cox, Lindsay Frost, Amber Tamblyn,
Rachael Bella, Daveigh Chase.
DURATA:
115 '
TRAMA:
La giornalista Rachel Keller (Naomi Watts), in seguito
alla misteriosa morte della nipote, sta indagando su
un'inquietante leggenda metropolitana: una misteriosa
videocassetta contenente immagini da incubo uccide dopo
una settimana, puntuale e inesorabile, tutti coloro
che la guardano. Rachel ha solo 7 giorni per scoprire
la verità e salvarsi la vita...
GIUDIZIO:
Gore Verbinski, già visto all'opera in titoli
come "The Mexican" o "Un Topolino Sotto
Sfratto", dirige il remake americano prodotto dalla
Dreamworks dell’agghiacciante Ringu di Hideo Nakata, a detta dei cultori dell'horror una
delle più belle e inquietanti pellicole degli
ultimi anni. Remake nettamente inferiore all’opera
prima, seguita in patria da due sequel, un prequel e
una serie televisiva, è stato prodotto e distribuito
realizzando un'ottima operazione commerciale, sottovalutando
tuttavia la capacita' del pubblico di accettare il prodotto
giapponese al di fuori degli standard, presupponendo
che la diversita' sia necessariamente sinonimo di incomprensione
e rifiuto. La regia di Verbinski è accurata anche
se spesso paga un'atmosfera troppo fredda e distaccata.
Buona la fotografia, assenti scene di gore o violenza,
compensate da tre o quattro sequenze di suspence e angoscia
abbastanza spaventose come nella scena iniziale, durante
la prima visione della vhs, nell'episodio del cavallo
imbizzarrito e nel finale, peccato che il personaggio
di Samara non incuta lo stesso terrore della piccola
Sadako alla quale si ispira. La musica è gradevole
e segue linearmente la storia senza risultare mai troppo
invadente. La sceneggiatura è il vero punto debole
della pellicola: diversi salti e buchi nella storia,
passaggi confusi, scarsa caratterizzazione dei personaggi,
troppo stereotipati, in un clima di "annacquamento"
che ha dissolto l'atmosfera davvero spaventosa dell'opera
originale e reso molto meno coinvolgente il tessuto
narrativo. Da uno spunto davvero appassionante e promettente
si passa ad una narrazione che si contorce, si rallenta,
confonde anzichè appassionare, coinvolgere, terrorizzare. The Ring è una pellicola discreta,
tuttavia si poteva e doveva fare di più, forse
sarebbe bastato distribuire e sottotitolare Ringu.
VOTO:
6-
INTERPRETI
Naomi
Watts: 6,5
Buona prova della bella e brava Watts che regge il film
praticamente da sola.
Martin
Henderson: 5
Secondario ai fini della storia, secondario
dal punto di vista interpretativo.
CRITICA
a
cura di Federico
Sperindei - THE
RING, LA VENDETTA DELLA TV ABBANDONATA:
Noah sta prendendo visione della videocassetta omicida
e Rachel, inquieta, esce sul balcone. Davanti a lei
un palazzo i cui muri sono vetri e lasciano vedere gli
interni, gli appartamenti, le vite monotone delle persone.
Un monumento spalancato allo sguardo: chiunque può farvi
cadere un'occhiata, distratta, mentre si occupa d'altre
faccende. Un po' come accade con la tv. Primo appartamento:
una persona passa da una stanza all'altra, per farlo
attraversa il salotto. Sullo sfondo la televisione è
accesa ma nessuno è accomodato sul divano, nessuno la
guarda. Secondo appartamento: un uomo parla al telefono,
si siede. Sullo sfondo la televisione è accesa, ma lui
è troppo impegnato nella conversazione. Terzo appartamento:
una donna sta pulendo il pavimento. Sullo sfondo la
televisione è accesa, ma la casalinga è dietro l'apparecchio
e il rumore dell'aspirapolvere, probabilmente, copre
l'audio. Forse è tutto qui il senso celato dall'opera
di Gore Verbinski, è lì che si apre la metafora di The
Ring e il suo messaggio spaventoso assume la
forma lucida dell'accusa. Accusa alla cultura troppo
leggera dello sguardo fugace, della televisione lasciata
parlare, sempre, sullo sfondo, e mai degnata d'attenzione
vera. Perennemente accesa, illuminata eppure mai analizzata
nel profondo, mai osservata criticamente. Abbandonata
ai suoi colori e ai suoi suoni perpetui, solo sfiorata
ogni tanto fra un'occupazione e l'altra, fra un pranzo
e un caffè, fra una telefonata di lavoro ed un problema
di matematica. E' questa la tv che uccide, quella che
forse si sente abbandonata e si vendica inondando il
cervello umano con immagini e suoni solo accennati ma
ridondanti. Messaggi che sembrano scivolare via e invece
si accumulano nella mente, la stordiscono con la ripetizione
di forme che, quasi ignorate, restano vuote e finiscono
per corrodere, occupare, ingannare. "La televisione",
sostiene la condannata Katie in apertura, "diffonde
nell'aria migliaia di onde elettromagnetiche che fanno
sì che le nostre cellule celebrali si distruggano più
rapidamente del normale". Onde nell'aria, che quasi
mai cogliamo ma che lasciamo espandersi. Onde che ci
uccidono, lentamente. Qualche minuto dopo, Katie morirà
giustiziata dalla piccola Samara. Samara è la televisione.
Nel video che mostra l'interrogazione della bambina,
all'interno dell'ospedale psichiatrico, si scorge qualcuno
che la collega alla parete con un cavo: è la spina della
tv che viene inserita nella presa. Nel pre-finale intravediamo
come il mostro colpisce Noah: con sguardi di forte luce
televisiva, con lampi di una tv adirata che colpiscono
a morte, vendicativi, il telespettatore. Le occhiate
distratte del pubblico tornano indietro con la potenza
di raggi laser. Lo sguardo, la luce, la tv, la morte.
L'azione letale della bambina sta principalmente nella
capacità di auto-generare foto. Sono i fotogrammi partoriti
dalla televisione. Samara ha una malattia: "lei
non dorme mai", avverte il piccolo Aidan. Come
la tv. E distrugge la gente. "Non voglio fare del
male", sostiene la bambina, "però lo faccio. Questa
cosa non finirà". Come la tv, incarnata nell'innocenza
di una fanciulletta che non può essere malvagia in sé,
che lo diventa perché vorrebbe solo essere ascoltata
e nessuno la accontenta. Assume inclinazioni assassine
indipendentemente dalla sua volontà. La televisione
non è dannosa in quanto tecnologia, non lo è nemmeno
per le trasmissioni che diffonde. Lo diviene quando
si sceglie di lasciarla in un angolo a rumoreggiare,
sempre attiva e mai ascoltata. Non la si fa dormire,
mai. Così le sue forme sembrano passare in superficie
e invece, non viste, si sostituiscono ai nostri pensieri.
Vivono al posto nostro, iniziano di nascosto a parlare
attraverso noi lasciandoci pochissimo tempo per vivere
di immagini personali e di identità autentica. Lasciandoci,
forse solo sette giorni. "Non abbiamo abbastanza
tempo", sussurra il Aidan a Rachel ancor prima
che su di loro si abbatta il turbine della disgrazia.
Un atteggiamento analitico, critico, impegnato, ci consentirebbe
di comprendere i messaggi del media e coglierli come
arricchimento dell'animo. Di potar via la loro essenza
utile e originaria. Invece si preferisce lasciar sempre
lì Samara, con noi eppure da sola, anziché spegnerla
quando non serve e osservarla pienamente quando interessa
davvero. Lei, così, ci si ritorce contro: i suoi suoni
di sottofondo si impossessano di noi, ci distorcono
proprio perché non li comprendiamo. Si trasformano in
un' esistenza parallela e opprimente anziché essere,
di tanto in tanto, parte importante della vita vera.
Divengono confusione e contaminazione. Nelle filosofie
orientali, Samara è il nome con cui si indica la realtà
dubbia e ingannevole che ci circonda, opposta alla verità
assoluta del Nirvana. Ecco l'annuncio di The
Ring: Samara "voleva solo essere ascoltata",
sostiene Aidan. E invece al mondo c'è sempre qualcuno
che non guarda la tv ma continua a lasciarla accesa,
non le permette di dormire. "Stare nella stalla
non le piace", afferma ancora il ragazzino, "perché
i cavalli non la fanno dormire, di notte". Forse
sono gli uomini, questi cavalli: sono gli uomini che
vivono nel modo peggiore il loro rapporto con il piccolo
schermo, che non sono usciti davvero dalla loro dimensione
arcaica e non hanno imparato a usare l'apparecchio nel
modo migliore. L'intera storia di Samara e della sua
famiglia appare come una lunga allegoria dell'ingresso
della televisione nella società. La vita della madre,
Anna Morgan, si dice appaia divisa in due. La prima
parte ovattata, serena, passata con il marito Richard
ad allevare cavalli sull'isola di Moesko. Poi qualcosa
che accade: i cavalli impazziscono e muoiono, lei perde
sua volta la ragione e infine si suicida. Un evento
ha cambiato tutto, in un momento preciso: dopo una serie
di aborti, è stata adottata la piccola Samara. Anna
aveva cominciato a vedere immagini terribili e ciò le
accadeva solo in presenza della bambina. E' la televisione
che è stata introdotta in una società antica e impreparata,
abituata a vivere di natura e semplicità. I cavalli
sono animali, avvertono le calamità prima degli uomini
e prima di loro comprendono gli effetti devastanti che
l'innovazione porterà con sé. Come con i terremoti.
Ma i cavalli sono anche, a loro volta, rappresentazione
degli umani: umani abituati ad esistere in un mondo
impreparato al nuovo ed incapaci di un approccio sensato
al mezzo televisivo. Lo accolgono nel modo sbagliato
e muoiono, come Anne. Come Katie. Come tutte le vittime
di Samara. Richard Morgan ha un atteggiamento diverso
e a sua volta emblematico: comprende i poteri tremendi
della figlia ma nemmeno lui prova ad ascoltarla. La
rifiuta, la allontana, la relega nella stalla assieme
ai cavalli che, con i loro rumori, la tengono sempre
sveglia. Rechel e Noah scopriranno la piccola prigione
nella quale l'uomo lasciava segregata la figlia. "La
teneva qui da sola", constata Rachel. "No,
non da sola", la contraddice Noah fissando da vicino
l'apparecchio televisivo posto al centro del piccolo
nascondiglio sopraelevato. Samara non viveva sola, viveva
assieme a una televisione. Assieme a un suo simile,
in qualche modo. "Mio padre voleva mandarmi via,
lui voleva bene ai cavalli". Richard Morgan amava
il suo piccolo mondo remoto, il mondo protetto degli
animali e dell'allevamento. Comprendeva come sua figlia
stesse distruggendo chi gli stava intorno e provava
a respingerla. A debellarla. La reazione dell'uomo quando
scopre che Rechel si è introdotta per la seconda volta
in casa sua, insistendo nell'indagine, è emblematica:
"ma che avete voi giornalisti? Vi appropriate delle
disgrazie e le diffondete come un'epidemia". I
giornalisti stanno dall'altra parte dello schermo, diffondono
i programmi e quelle immagini che colpiscono telespettatori
incapaci di difendersi. Richard si scaglia contro di
loro e poi denuncia gli strumenti dell'azione distruttrice
di Samara: "quei sussurri. e quelle foto. che cosa non
faceva vedere!" Il video e l'audio, crudi e crudeli:
le armi mortali della televisione. Richard aveva creduto
di poter resistere ma ora, di fronte a Rachel, comprende
che non c'è nulla da fare: solleva rabbiosamente l'apparecchio
televisivo, lo porta in bagno, lo collega, stringe i
fili attorno a sé e poi si getta nell'acqua della vasca.
Vuole morire, anche lui, ucciso dalla figlia. Pone fine
alla fuga inutile che invece continua a coinvolgere
la giovane amica di Katie, l'unica che ha assistito
alla morte della coetanea: lei ora vive in un ospedale
psichiatrico e cammina con un velo accanto a sé perché
va in crisi ogni volta che vede una tv. E' stata a sua
volta punita, dopo che nella prima scena aveva detto
alla compagna "scegli il canale che vuoi, non m'importa,
io odio la televisione". E nel frattempo, stancamente,
la guardava. Rachel, lei sì, si salverà. E salverà suo
figlio. Bastava fare un copia della videocassetta, bastava
ascoltare Samara, bastava assumere l'atteggiamento attento
dell'indagatore. Analizzare. Esplorare. Capire. Certo,
alla fine la sopravvivenza passa per l'atto meccanico
della riproduzione della pellicola. Ma si tratta di
un espediente cinematografico e di un simbolo al tempo
stesso: normalmente, si riproduce ciò che ci interessa.
Per non morire si deve passare attraverso il gesto conclusivo
compiuto nei confronti di qualcosa che non si vuole
perdere, non si vuole lasciar andar via, si desidera
ri-vedere e ri-analizzare e comprendere ulteiormente.
Passare attraverso la duplicazione. Una copia per sé
stessi o una copia per gli altri, per diffondere quello
che ha destato la nostra attenzione e da cui si è stati
coinvolti. Una copia per gli altri, che se non capiranno
moriranno. Ma sarà colpa loro. Saranno responsabili
ignari eppure colpevoli della propria tragedia, se lasceranno
cadere il messaggio. Il primo piano finale di Rachel
è il volto dell'impotenza che risponde alle interrogazioni
sollevate da Aidan circa il destino delle altre persone,
di quelli che vedranno la videocassetta appena ricreata.
Rachel non può fare niente, lei ha capito ed ha agito,
si è salvata ma non può salvare tutti. Coloro ascolteranno
davvero Samara, vivranno. Lei, la giornalista, lo ha
fatto con lo spirito intraprendente di chi solitamente
sta dall'altra parte del mezzo ed è abituato a conoscere
pienamente i messaggio perché ne è creatore, perché
li distribuisce anziché riceverli. Li moltiplica, li
diffonde, produce copie. Si salva perché studia ed è
consapevole, perché non può essere ingannato, perché
moltiplica il programma e lo porge ad altri. Li spinge
verso la fine, forse. Ma non si pensi che solo il giornalista
possa sottrarsi al destino e che lo faccia sacrificando
innocenti. Rachel è l'eroina del film, non il cattivo.
Rachel non è il male, è semplicemente l'unica a comprendere
la sofferenza di una ragazzina disperata: "lei
voleva solo essere ascoltata. Capita spesso che i bambini
vogliano essere ascoltati". Non si pensi che i
colpevoli veri siano coloro che stanno al di là dello
schermo, che producono i contenuti televisivi, che li
diffondono. Se portano disastri non è colpa loro, come
non è colpa del mezzo in sé. Chiunque potrebbe capire
e vivere, se solo tentasse. Non prendetevela con Rachel
e nemmeno con Samara. La scelta di una bambina per rappresentare
il volto mortale della televisione è ampiamente indicativa:
la piccola fa tenerezza al telespettatore più spesso
di quanto li terrorizzi. Di tanto in tanto ci si ritrova
quasi a parteggiare per lei. Dopotutto è un'innocente
che ha subìto ogni sorta di maltrattamenti: costretta
a vivere in una stalla, uccisa e gettata in un pozzo
solo perché chiedeva attenzione. I bambini non nascono
mai malvagi, sono le circostante che a volte li incattiviscono.
Le tecnologie non nascono come dannose, è l'uso che
se ne fa a poterle rendere devastanti. Samara che per
qualche secondo torna in vita, fra le braccia di Rachel,
nel pozzo, proprio nell'istante in cui la donna credeva
di dover morire, celebra la congiunzione dolce fra la
tv positiva e chi ne ha compreso davvero il valore.
I colpevoli sono gli altri, le vittime. Vittime di sé
stessi prima che della bambina, come Anna e Richard
Morgan. La madre che voleva a tutti i costi una figlia
e che per quella figlia perde la ragione perché non
sa capirla. Il padre che vuole respingere il nuovo e
rifiuta qualsiasi tipo di ascolto, corretto o sbagliato,
senza rendersi conto che ormai non si può più tornare
indietro. L'unica strada vera per liberarsi degli incubi
portati da Samara sarebbe stata il tentativo di ascoltarla.
Tutta l'isola di Moesko, in realtà, pare una metafora
spinta della società che rifiuta di evolversi oltre
una vita a ridosso della natura. La dottoressa che ha
avuto in cura Anna e Samara, interrogata da Rechel,
sostiene che "da quando Samara se ne è andata le
cose vanno meglio" e che la presenza della bambina
aveva peggiorato l'intera popolazione del luogo perché
"quando qualcuno prende un raffreddore, qui, questo
diventa di tutti". La stessa dottoressa si prende
cura di un giovane ritardato che di nome fa Darwin:
il nome dell'evoluzione. L'evoluzione che a Moesko si
è fermata, come si è fermata quella del ragazzo, perché
ci è mostrati incapaci di accogliere l'innovazione.
Si è andati verso il vortice del maledetto. Nel frattempo,
Verbinski lascia che The Ring "si
perda" in un accumulo di segni affastellati, ripetuti,
svariati. Le finestre che si aprono, l'acqua sul pavimento,
i volti cancellati, il segno della presa sul braccio.
Persino il filmato assassino è costituito da una serie
di segni ed immagini che si accostano e che all'apparenza
non hanno significato vero, non dicono, non sanno. Inquietano
ma non spiegano, spaventano nel momento in cui non si
lasciano decifrare. Restano forme vuote perché alla
fine si rinuncia ad analizzarli. Sono tanto numerosi
che inevitabilmente perdono d'importanza agli occhi
dello spettatore e si decide, inconsciamente, di lasciarli
scorrere senza curarsi del loro senso. The Ring è un guazzabuglio di simboli che rimandano a tutto e
a nulla contemporaneamente, che divengono sempre più
frequenti, che ci stordiscono. L'albero disegnato sulla
parete, la scala, la porta del pozzo che si chiude da
sé e i puntelli del pavimento che si alzano d'improvviso.
Servono, sì, eppure non sembrano indispensabili. Ci
stanchiamo di tentare una loro interpretazione, li trascuriamo
relegandoli in un angolo dello sguardo e dell'attenzione.
Come facciamo con quel piccolo schermo lasciato sempre
acceso nel sottoscala dell'esistenza, col rischio che
esso si vendichi tremendamente. The Ring,
nel suo essere anche successione ininterrotta di segni
sottovalutati, ci include nella metafora che esso stesso
costruisce perché possiamo, forse, comprenderla dall'interno.
E perché oltre ogni allegoria e ogni patina fantastica
ci appaia la verità concreta di una storia desolata:
Anna e Richard Morgan, durante un viaggio, non avevano
adottato nessuna figlia. Avevano comprato la televisione. Federico Sperindei |