ANNO:
Portogallo 2002
GENERE:
Drammatico
REGIA:
Joao César Monteiro
CAST:
Joao César Monteiro, Rita Durao, Miguel
Borges, Manuela De Freitas.
DURATA:
92 '
TRAMA:
La strana storia e la stramba natura dell'eccentrico
João
Vuvu (Joao
César Monteiro)...
CRITICA a
cura di Chiara F.:
Cunicoli della memoria e cunicolari (e, forse, canicolari)
dialoghi. La cadenza Lisboeta di Monteiro anima
e disanima tutto
il film, la sua ultima fatica. Il regista portoghese,
da noi quasi sconosciuto, è una figura di vecchio
nervosa e surreale, nella sua allampanatezza, con il
suo cappello e il suo volto bruciato ed esotico. Ancora
più surreali i dialoghi e i monologhi, incomprensibili
se si guarda il film in versione originale, di questo
filosofo atipico, principesco e grottesco insieme,
fino alla brutalità. Siamo, appunto, a Lisbona,
dove il vecchio Joao Vuvu, alter ego
del regista, vive e
coltiva con inusitata vitalità gli
sprazzi ingenui e consapevoli insieme di una costante
osservazione di chi lo circonda. Tutti i giorni compie
lo stesso percorso con l'autobus, carpendo sorrisi
di ragazze o signore, pittoresche esibizioni di musici
slavi, incontrando anime "gemelle" del suo
passato con le quali scherza e si intrattiene, in particolare
donne, per le quali il protagonista nutre una morbosa
e insieme divertita ossessione. Da un lato, quindi,
il lento, solare percorso dell'autobus 100 fino ai
giardini pubblici sapientemente ombreggiati dalla fotografia,
con la città che sfila lateralmente senza imprimersi
nè impressionare. Da un altro la casa, la zona
completamente oscurata che oltrepassa la luce della
strada per introdursi nell'abitazione ampia, calda,
minimale. Qui sfilano le comprimarie di Vuvu, contraltari
del desiderio
erotico e dell'irrefrenabile impulso ironico dell'uomo:
donne delle pulizie aspiranti attrici, che battibeccano
amorevolmente
con Vuvu sulla vita, la gioventù che lo appassiona
e lo distrae, semplici questioni pratiche. Ogni impulso
si trasforma in scena, ogni movimento in una danza
teatrale dilettantesca con cui il regista sembra voler
ribadire
il suo attaccamento allo stupore,la sua continua ricerca
di immagini nuove, di oggetti d'arte e di venerazione
che prendono forme inspiegabili, come nella scena in
cui Monteiro dedica con struggimento le proprie labili
energie alla pulizia del pavimento, che sembra attirarlo
e racchiuderlo quando, in posizione fetale o semplicemente
immobile, si accascia a terra sopraffatto. Verso il
termine del film (che, come nel pregiudizio più comune
sul cinema portoghese, spesso ha diversi "punti
morti" che ne allentano l'intensità e l'estetica)
assistiamo a un episodio che trascina il film da un
piano satirico-poetico
ad uno più propriamente narrativo: il figlio
di Monteiro ritorna da lui dopo anni di carcere, nella
speranza di ricostruire la propria vita appoggiandosi
al padre, fin troppo serafico e lieto del suo ritorno,
che si ritrova a mediare la rabbia della nuora, una
donna
poliziotto nervosa e sensibile, con un lungo racconto
epico su una storia d'amore infelice. Nonostante la
sua apparente fragilità fisica
e la sua imperturbabilità psichica, Vuvu comincia
a covare nella sua mente aperta e giocosa progetti
schizoidi, arrivando all'estremizzazione della sua
curiosità sessuale, che
lo porta a contattare l'irreale e quasi spaventosa
figura di una donna con peli lunghissimi che le coprono
il corpo, con la quale ingaggia una pericolosa e ambigua
avventura che si avvale di simbologie sceniche forti
e vagamente tribali. Joao immagina e sogna, invece,
la morte di lei, e il suo essere divenuto blasfemo
che insidia la figura della giovane donna nella sua
tomba ,e
nelle oscurità e negli anfratti del sogno si
risveglia in ospedale, dove comprendiamo l'assurdo
modo (scelta forse discutibile) con cui l'uomo aveva
scelto di morire: a causa di un enorme pene di plastica
ingurgitato. Fragilizzato, sfibrato e impalpabile,
il convalescente oltrepassa la sua ultima soglia, come
un fantasma alleviato dalle angustie dei luoghi e delle
situazioni, dalla morbosità e dalla cattiveria
latente nelle cose, che si riversa nelle sue energie
e nei suoi convulsi appelli alla vita. Le ultimie immagini
ricercano la levità, la leggerezza, e forse
la rilassatezza della scena. Come in una fiaba le donne
che lo hanno turbato si condensano in un'angelica,
giovane madre che gli parla dall'alto di un albero,
e il suo
occhio rincorre la monotona natura del parco. L'occhio,
che infastidendo quasi lo spettatore rimane 10 minui
fisso
sullo schermo, mentre scorrono le note sopranili di
madrigali. Un affresco forse eccessivo, essenziale
e ridondante, lunghissimo, in cui le emozioni si risvegliano
con violenza ma, purtroppo, il più delle volte
rischiano di addormentarsi o di intraprendere pensieri
esuli dal film e dalle sue dinamiche, che la maggior
parte delle volte non riescono a svelare nulla al di
là delle immagini e dell'ammutolimento quieto
dell'atmosfera. Da vedere, ma forse meglio se in doppiaggio
o con l'aiuto di sottotitoli... Chiara
F.
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